L’utilizzo dei dati sanitari raccolti nei PSP tra Privacy e GDPR

Tempo di lettura: 3 minuti
In un mondo sanitario che si sta modellando sulla spinta delle nuove tecnologie che introducono nutrite potenzialità di raccolta, di calcolo e di analisi, i dubbi in merito ai limiti imposti dalla legge nel trattamento dei dati non fanno che crescere.

Sono tante le domande che gli operatori sanitari del mondo healthcare si pongono sui cambiamenti introdotti dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

E alla luce delle recenti discussioni in materia di Real World Evidence e Real World Data, sono consistenti anche le perplessità riguardo all’utilizzo dei dati raccolti dai Programmi di Supporto al Paziente (PSP).

I PSP fanno del monitoraggio costante del paziente il loro principale ingrediente, si basano sulla raccolta di dati e conseguentemente di evidenze, ma in che modo possono essere maneggiate queste informazioni?

Per cercare di dare una risposta a questi quesiti, abbiamo fatto qualche domanda all’Avvocato Silvia Stefanelli che da anni offre consulenza nelle diverse tematiche inerenti il diritto sanitario.

  • Quali sono stati i principali cambiamenti introdotti dal GDPR sui dati sanitari?

I cambiamenti più rilevanti sono senza dubbio quelli relativi alla base di liceità del trattamento.

Mentre il trattamento del dato sanitario nella precedente architettura normativa della dir 95/46/CEE e del “vecchio” Codice Privacy era (quasi) sempre il consenso del paziente, nel nuovo GDPR sposta l’attenzione sulla finalità di trattamento.

In altre parole è la “ragione”  per cui i dati vengono trattati che ne determina la base di liceità: così se il dato viene trattato per finalità di diagnosi, assistenza e terapia (art. 9 lett. h) e chi lo tratta è un professionista sottoposto al segreto professionale, non occorrerà alcun consenso perché la base di liceità sarà direttamente nell’art. 9 comma 2 lett h  e art. 9 comma 3 del GDPR; viceversa, se la finalità è diversa (per esempio la soddisfazione del paziente) oppure manca il requisito di cui all’art. 9 comma 3 (trattamento da parte di soggetto sottoposto al segreto professionale), occorrerà cercare un’altra base di liceità di trattamento, che presumibilmente potrà essere il consenso del paziente.

  • È possibile e con quali “accortezze” utilizzare i dati acquisiti nell’ambito dell’erogazione dei servizi assistenziali?

Si, certo. Anzi i dati relativi alla salute sono considerati un “bacino” di informazioni molto importante. È lo stesso GDPR che al Considerando 157 spiega l’importanza dell’utilizzo dei dati contenuti nei registri anche per finalità diverse rispetto a quelle per cui i dati sono stati raccolti e al Considerando 159 ci spiega che la nozione di ricerca scientifica del GDPR deve essere interpretata “in senso lato e includere ad esempio sviluppo tecnologico e dimostrazione, ricerca fondamentale, ricerca applicata e ricerca finanziata da privati, oltre a tenere conto dell’obiettivo dell’Unione di istituire uno spazio europeo della ricerca ai sensi dell’articolo 179, paragrafo 1, TFUE”.

Chiaro che il trattamento dei dati sanitari per finalità diverse da quelle di diagnosi e cura deve comunque rispettare in primo luogo (e tra gli altri), i principi di liceità e trasparenza: vale a dire che occorre identificare con esattezza la finalità del trattamento – e quindi, di conseguenza, identificare la base giuridica del trattamento – rispettare il principio di trasparenza, cioè informare in maniera chiara e completa il paziente delle finalità di trattamento (attraverso l’informativa) e valutare la corretta base giuridica di trattamento.

  • Il dato raccolto nei PSP può essere utilizzato per effettuare analisi di Real Word Evidence, quali sono i passaggi necessari per farlo correttamente?

È una domanda molto complessa che oggi non ha una risposta chiara. Io credo però che il quadro normativo permetta alcune considerazioni.

La Real Word Evidence è un’analisi dei dati raccolti nell’ambito della somministrazione di un farmaco al di fuori di un trial controllato.

Allora, sotto il profilo trattamento dato, il punto cardine è – a parer mio – quello prima analizzato: quale è la finalità di questa analisi che viene effettuata sui dati reali e chi tratta questi dati. Facciamo qualche esempio.

Se la finalità è la valutazione della soddisfazione, o della aderenza del paziente al farmaco o dispositivo, potremmo essere di fronte ad un trattamento per la customer satisfaction oppure una farmacovigilanza o sorveglianza post marketing del dispositivo medico, per le quali occorrerà cercare la corretta base di trattamento anche a seconda di chi è il titolare di questo trattamento, nonché verificare che il paziente sia stato informato di tale trattamento ulteriore.

Se viceversa il trattamento dei RDW ha come finalità quella di estrarre informazioni finalizzate ad una verifica di natura scientifica, allora i riferimenti normativi possono cambiare. In questo caso il quadro normativo si complica perché, mentre il GDPR disciplina solo la ricerca scientifica (art. 89), il nostro Codice Privacy distingue tra ricerca scientifica con dati sanitari (art. 107 del Codice) da ricerca medica ed epidemiologica (art. 110 del Codice privacy), senza però chiarire la distinzione tra la nozione di “scientifico” da quella di “medico”.

La domanda, pertanto, non ha una risposta univoca: la stessa va sempre cercata nelle finalità del trattamento.

 

 

Real World Evidence, la sfida italiana

Tempo di lettura: 3 minuti

RWE. Una parola che genera al contempo attrazione, come ogni nuova tendenza che inizia a diffondersi in un ambito lavorativo, ma anche diffidenza, poiché le modalità di applicazione dell’RWE hanno contorni ancora poco definiti e chiari.

Dal teorico studio accademico, gli operatori del mondo healthcare, vorrebbero vedere la Real World Evidence declinata in strumenti quotidiani che possano rendere tangibili le possibilità di questo approccio.

Ma, concretamente, cosa significa cogliere la sfida che il nuovo paradigma dei Real World Data ci sta ponendo?

Partendo dalla definizione, secondo quanto riportato dalla Food and Drug Administration  nel 2016, la Real World Evidence è l’evidenza clinica relativa all’uso e ai potenziali benefici o rischi di un prodotto medico derivato dall’analisi dei Real World Data (RWD – “dati del mondo reale”). L’evidence deriva da un accurato piano di ricerca e di analisi, predefinito e successivamente interpretato. La FDA ha già delineato come sia possibile utilizzare sia i Real World Data che le loro evidenze per monitorare la sicurezza post mercato, gli eventi avversi e per prendere decisioni normative. La comunità sanitaria potrebbe servirsene per valutare linee guide e scelte di pratica clinica. La comunità dei pazienti potrebbe beneficiarne nell’ottenere cure sempre più personalizzate in base al proprio profilo di salute. L’Industria potrebbe utilizzarli per dimostrare il valore del proprio prodotto in tutte le fasi del ciclo di vita, dallo studio clinico alla sua maturità. Ad esempio, attraverso una valutazione dell’unmet need clinico per lo sviluppo di una nuova terapia, una valutazione del budget-impact per la fase di accesso di un nuovo prodotto, uno studio di aderenza o uno studio del valore apportato dal servizio in caso di rinegoziazione di un farmaco e così via.

RWE e la sfida dell’accesso al dato

Uno dei motivi per cui in Italia l’RWE non è così utilizzata risiede nelle fonti del dato, molto eterogenee, e che spesso risultano di difficile accesso e non organizzate in database completi e fruibili in breve tempo.

Le cartelle cliniche informatizzate non presentano formati standard, vi è una mancata uniformità dei database amministrativi e questi ultimi non sempre sono di semplice fruizione, sia per motivi più tecnici legati alle strutture e alle conformazioni dei database, che per difficoltà legate ai permessi di accesso, le difficoltà incontrate dai centri clinici nel poter impostare un follow-up puntuale della malattia. Sono queste le difficoltà che quotidianamente affronta chi decide di cogliere la sfida posta dal nuovo paradigma della RWE.

Come i servizi a domicilio si inseriscono nella grande sfida dei dati

Una delle fonti del dato ancora poco considerata quando si parla di RWE è quella dei dati derivanti dai servizi di home-therapy che possono rappresentare, per la comunità scientifica, gli strumenti attraverso i quali raccogliere un insieme cospicuo di dati strutturati con metodologie continuative, programmate e regolate. Un efficace strumento per generare un solido pattern di dati durante un lungo periodo di tempo. Monitorare l’andamento di un valore, valutare il grado di aderenza a una terapia e gestire eventuali effetti collaterali in modo sicuro e affidabile.

Un esempio di tale utilizzo è lo studio del 2017 svolto su 85 italiani affetti dalla malattia di accumulo lisosomiale di Anderson Fabry, grazie al contributo di Caregiving Italia, ora parte di Healthcare Network Partners. I risultati raccolti durante il periodo di home therapy, di un anno e undici mesi, hanno riportato:

– Un aumento di aderenza al trattamento dei pazienti al 100% (primaperdevano 1 infusione su 10) ;

– L’incremento della qualità di vita del paziente.

Questo studio, tra le altre cose, è stato utile per affermare il modello dell’home-therapy come good practice in molte regioni italiane.

Strutturare una raccolta dati che possa generare evidenze scientificamente valide e utili rappresenta un mezzo per prendere decisioni a vantaggio di tutti gli attori: dai pazienti – per una migliore e corretta terapia, all’industria – per dimostrare il valore apportato, alle istituzioni – in ottica dell’implementazione del cost-saving.

Il ruolo del supporto emotivo nella gestione digitale delle cronicità

Tempo di lettura: 4 minuti
Scopri che tuo figlio è affetto da una malattia cronica e non sai come riorganizzare il nuovo assetto famigliare.

A 45 anni ti viene diagnosticata una patologia rara e devi cambiare lavoro per trovarne uno più consono alla tua situazione attuale.

Saper valutare le emozioni, i cambiamenti e lo stress correlati al vissuto della malattia è imprescindibile per migliorare la qualità di vita del paziente.

In un contesto, come quello italiano, in cui le malattie croniche sono in crescita interessando quasi il 40% della popolazione, non si può trascurare un aspetto fondamentale: l’impatto psicologico. Le malattie croniche rappresentano una condizione che dura nel tempo e che richiede un processo di adattamento, un ruolo attivo e consapevole del paziente stesso nonché il sostegno di caregivers e healthcare professionals, come sottolinea il documento che illustra il ruolo dello psicologo nel piano nazionale delle cronicità .

A partire dalla diagnosi, quando il paziente e il suo contesto socio famigliare si trovano a dover gestire la terapia e il decorso della malattia, il supporto dello psicologo si rivela fondamentale.

La diagnosi di una malattia cronica  determina una situazione traumatica, sia nel paziente che nei suoi caregivers, perché́ solitamente è inaspettata, spesso difficile da controllare. Convivere con una patologia cronica comporta grandi cambiamenti nella vita di tutti i giorni soprattutto per quanto riguarda la gestione dei propri interessi o delle attività che abitualmente si praticano.

Lo psicologo ha il compito di fare da collante tra tutte le dimensioni in campo , aiutando il sistema medico-pazienti-caregivers. Questa figura può aiutare i medici nella comunicazione del piano terapeutico, il paziente nell’elaborazione dei vissuti emotivi legati alla malattia, i familiari nel fronteggiare i risvolti pratici ed emotivi della quotidianità.

Il supporto psicologico si digitalizza

 Gli smartwatch, i wearable, i cellulari e le applicazioni stanno diventando una parte importante della quotidianità dei cittadini e circa il 41% degli italiani utilizza un dispositivo indossabile per il monitoraggio dello stile di vita ,il 52% usa un’app di messaggistica per chiedere al medico di fissare o spostare una visita e nel 47% dei casi per comunicare lo stato di salute.

In un contesto sanitario che sta implementando percorsi di cura supportati dalla tecnologia come si integra l’aspetto umano del supporto emotivo e psicolgico?

Attraverso strumenti come Skype, live chat e dispositivi sempre connessi anche il modo di fare consulenza psicologica ha subito un mutamento. Esistono infatti applicazioni , denominate in modo generico MHapp, dove MH sta per mental health, che forniscono un supporto psicologico spesso antecedente all’incontro con il proprio psicologo. Esistono anche dispositivi che permettono un contatto on demand con lo psicologo come il dispositivo Capsuled dell’azienda israeliana Vaica, ormai presente anche nel mercato italiano.

Per capire ancora meglio in che modo il ruolo del supporto emotivo si inserisce in un contesto sanitario sempre più digitalizzato abbiamo ftto qualche domanda a Francesca Alboré psicologa, psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Centrata sulla Persona e formata in EMDR.

 –Qual è il peso della componente del supporto psicologico nella gestione delle cronicità e nei programmi di supporto al paziente?

Per rispondere a questa domanda è importante ricordare il ruolo della componente emotiva in una patologia cronica che, per sua natura, accompagna la persona per tutta la vita.

La diagnosi segna un momento particolarmente delicato e merita uno spazio di sostegno dedicato in cui è fondamentale sostenere la persona alla ricerca di un nuovo equilibrio. Vissuti come tristezza, impotenza, rabbia e ansia sono difficilmente riconosciuti dal paziente o comunicati all’esterno, spesso per vergogna o paura di diventare motivo di preoccupazione per le persone care.

Uno dei primi meccanismi di difesa, ad esempio, è quello di identificarsi come “malato a vita”, oppure al contrario di evitare con tutte le forze questa etichetta, comportandosi come se la malattia non esistesse, mettendo così a rischio la propria salute.

Bisogna anche sottolineare che il lavoro di supporto psicologico non può e non si deve fermare soltanto al paziente, dal momento che la patologia coinvolge l’intero sistema di cui fa parte. Una parte rilevante del supporto psicologico è perciò rivolta alla rete familiare.

Ecco perché il supporto psicologico è così importante quando ben integrato all’interno dei programmi di supporto al paziente: può sostenere efficacemente il paziente ed i caregiver, fornendo uno spazio di ascolto individuale o condiviso per instaurare i necessari nuovi equilibri o ristabilire quelli perduti.

All’interno dei programmi di supporto grande spazio ha inoltre il lavoro sulle risorse personali, fondamentale per sviluppare, attraverso l’acquisizione di nuove abilità, l’adattamento alle nuove condizioni e la costruzione di nuove abitudini.

Infine, il supporto psicologico fornisce al medico informazioni importanti sull’impatto della malattia e delle terapie sul paziente, offrendo una prospettiva importante rispetto all’aderenza alla terapia.

–L’aumento crescente della componente digitale: una minaccia o un’opportunità?

La relazione è un perno imprescindibile, e non può essere sostituita, ma direi che l’aumento crescente della componente digitale possa rappresentare un’opportunità.

Bisogna considerare la possibilità di uno smarrimento iniziale, dovuto al timore di perdere il contatto umano o di doversi affidare ad un oggetto esterno ma dobbiamo ricordare che queste componenti mirano specialmente ad incrementare la quantità di dati raccolti e a facilitare la comunicazione e, se usati correttamente, possono rappresentare un’ulteriore risorsa per un percorso di salute centrato sulla persona e costruito sui suoi specifici bisogni.

Si va dalla possibilità di effettuare un colloquio attraverso una videochiamata fino alla realtà virtuale che consente, in un ambiente protetto e sicuro, di confrontarsi con stimoli minacciosi (ad esempio un animale per una fobia specifica o una platea di persone per la fobia sociale) oppure di operare con finalità riabilitative (ad esempio per lavorare sulle aree di funzionalità compromesse dall’avanzare del deterioramento cognitivo).

La vera sfida è essere al passo con i tempi, integrando queste nuove modalità all’interno del percorso di terapia senza mai perdere di vista gli obiettivi del processo e la relazione con il paziente.

Quando il supporto si fa viaggiando

Tempo di lettura: 3 minuti
“Domani scade il bando per il tirocinio in Spagna, vorrei davvero andarci, ma i miei sono preoccupati per la terapia e anche io non so come fare”.

“Voglio studiare cinema a Roma, ma i miei sono preoccupati che stando lontano da casa io non possa curarmi come devo”

 “Quest’anno i miei amici hanno deciso di fare la scuola di surf in Portogallo un mese prima di iniziare a studiare, ci va anche Alessio… spero solo che la dottoressa mi permetta di farlo”.

Voglia di viaggiare, di non avere confini per svolgere il proprio lavoro e per studiare o semplicemente per potersi godere una vacanza come i propri coetanei. Questi sono solo alcuni fotogrammi della vita dei giovani: aperti al mondo, pronti a viaggiare e consapevoli delle tante opportunità che li aspettano fuori dalle mura di casa. Questi sono i pensieri che caratterizzano anche le persone affette da patologie croniche: dietro la cartella clinica che riporta i dosaggi dei farmaci, la calendarizzazione delle assunzioni e gli esami del sangue, ci sono prima di tutto delle persone che non vogliono vivere una vita in funzione della terapia, ma vogliono la flessibilità di quest’ultima in funzione delle loro scelte.

Il mondo healthcare si prende carico anche di queste esigenze? Come riporta il Piano Nazionale delle Cronicità caregivers, dottori, infermieri e tutte le altre figure che fanno parte del processo di cura del paziente, dovrebbero svolgere un’analisi integrata dei bisogni globali del paziente per garantire un processo di cura come un vero e proprio accompagnamento fatto di percorsi integrati, personalizzati e dinamici.

In questo contesto i Programmi di Supporto al Paziente possono avere un ruolo cruciale nell’analizzare le necessità dei pazienti per offrire loro percorsi di cura flessibili, che si adattano perfettamente alle loro esigenze, anche quelle di mobilità.

Le malattie croniche aumentano, insieme alla voglia di viaggiare

In Italia le malattie croniche sono in crescita. Secondo quanto riportato da AdnKronos, queste patologie l’anno scorso hanno interessato quasi il 40% della popolazione della Penisola per un totale di 24 milioni di italiani, con 12,5 milioni affetti da multi-cronicità. Il dato è in aumento.

In contemporanea, però, l’Italia si è posizionata sul podio dei Paesi europei con il maggior numero di giovani che decidono di prendere la valigia e partire. Alla domanda “hai già viaggiato da adulto?” il 97% risponde positivamente: si tratta del dato più alto, eguagliato solo dai giovani spagnoli.

Negli ultimi anni, oltre al numero di viaggi che i ragazzi svolgono per divertimento, stanno crescendo anche gli studenti che decidono di partire per completare la propria carriera universitaria con un’esperienza di qualche mese all’estero. Solo nel 2017, sono stati 36.000 gli studenti che sono partiti dagli atenei italiani per un’esperienza Erasmus sia per studiare in un’altra nazione che per svolgere un periodo di tirocinio in un’azienda estera.

Il tema della cronicità e della necessità di viaggiare dei pazienti è un punto cruciale dell’evoluzione dei programmi di supporto al paziente.

PSP: ascoltare e programmare per viaggiare

Anna ha 24 anni e quando era alle elementari le è stata diagnosticata una malattia rara da accumulo lisosomiale. Da allora, ogni settimana svolge la terapia enzimatica a casa, grazie al programma di supporto al paziente. L’anno prossimo vorrebbe svolgere un master in Germania per un semestre, in uno dei centri di ricerca più all’avanguardia d’Europa. Non vuole rinunciare a questa opportunità e insieme al suo medico e al suo service provider imposta un piano per organizzare la sua partenza.

Il caso di Anna rappresenta il prototipo di una delle innumerevoli storie di giovani pazienti che come lei sentono il bisogno di potersi spostare. Gli operatori del mondo healthcare hanno iniziato a studiare proposte flessibili di percorsi di cura personalizzati sulle esigenze dei più giovani sempre più in mobilità.

Se la terapia si sposta all’estero il primo passo è quello di garantire nel paese di destinazione la presenza -grazie a partnership certificate – di provider che garantiscano gli stessi standard di qualità e sicurezza mediante personale qualificato e formato secondo standard definiti. Laddove sia necessario è fondamentale organizzare il trasporto del farmaco: spesso i pazienti devono risolvere il problema di trasportare terapie che devono essere mantenute a temperatura controllata. In questi casi il service provider deve organizzare il trasporto e la consegna dalla Farmacia dispensatrice italiana fino al luogo di destinazione.

Permettere ai pazienti di vivere appieno le loro vite senza rinunce consente di vincere l’idea che le cronicità possano determinare il declino di aspetti della vita come l’autonomia, la mobilità e la vita di relazione con il conseguente aumento di stress psicologico.

Studiando i bisogni reali del paziente e unendo competenze sanitarie, logistiche e le nuove opportunità fornite dalle tecnologie é possibile creare un supporto flessibile e sempre al passo con i nuovi bisogni dei pazienti.

Gli influencer sempre più health

Tempo di lettura: 4 minuti
Nano, Health, Micro. La figura dell’influencer si sta  diversificando e connotando sempre di più. Anche nel settore sanitario stanno cominciando a emergere questi catalizzatori di attenzione un tempo sfruttati soprattutto nei settori B2C

Esplorare le possibilità legate alla costruzione di campagne di comunicazione sfruttando la figura degli influencer è un passo importante anche per il settore healthcare.

Secondo quanto riportato da un sondaggio del 2018, infatti, il 78% delle aziende si rivolge a questa figura per completare la propria strategia di comunicazione.

E se l’obiettivo non fosse vendere una borsa griffata, ma sensibilizzare su tematiche legate all’importanza dell’aderenza terapeutica o di un’alimentazione sana? Le nuove figure di professionisti che sul web sfruttano i social network per divulgare informazione a un pubblico sempre più ampio stanno aumentando.

Grazie al contributo di Biagio Oppi, delegato Emilia-Romagna per Ferpi e professore di Comunicazione d’Impresa all’Università di Bologna, cercheremo di scoprire in che modo questi “catalizzatori di attenzione” e influenzatori di pubblici sempre più specifici possono essere utilizzati per aumentare l’awareness del paziente e per incitarlo a condurre stili di vita corretti.

Da anni ormai si sente parlare della figura dell’influencer nelle campagne di comunicazione. A chi ci si riferisce, che caratteristiche dovrebbe rispettare?

Le Relazioni Pubbliche hanno teorizzato lungo tutto il corso del ‘900 il concetto di influenzatore che peraltro esisteva da sempre nelle comunità: nei manuali di relazioni Pubbliche abbiamo studiato come raggiungere gli influenzatori (definiti solitamente opinion leader) che poi avrebbero influenzato (teoria “Two Step Flow of Communication”) le masse o le nicchie di pubblici di nostro interesse. Con la rete e in particolare con i social network, le cose sono cambiate perché i pubblici interagiscono direttamente con gli stessi influencer che quindi hanno una relazione non solo top-down, ma anche di continuo interscambio. Coloro che oggi riescono per autorevolezza e carisma ad emergere e mantenere un ruolo di influenza, sono ancora più rilevanti per le campagne di comunicazione.

I nano influencer, definiti la ‘nuova professione del 2019’, sono diventate le principali figure al centro delle ricerche aziendale per le campagne marketing. Chi sono? Quale è la ragione per cui il marketing ha rivolto il suo interesse verso queste figure?

Il nano influencer è colui che ha un preciso ambito di influenza in una nicchia ben identificabile; probabilmente spesso non è nemmeno conosciuto al di fuori della comunità di interesse di cui è influencer. È molto rilevante (ed interessante quindi per marketing e relazioni pubbliche) perché la sua credibilità è molto elevata e non è basata sulla quantità (banalmente il numero di follower e di interazione con gli stessi) ma sulla qualità (intensità della relazione, livello dei contenuti).

Una curiosità… la prima grande campagna documentata con nano-influencer probabilmente è quella che riguardò i four-minutes men di cui il CPI (il Committee on Public Information) del Governo USA si servì per sostenere le scelte governative a favore della Prima Guerra Mondiale. Si calcola che per convincere gli americani a entrare in guerrra furono coinvolti oltre 75.000 four-minute men, addestrati ad essere estremamente stringati ed essenziali nel fare il loro discorso pro-intervento in cinema, teatri, luoghi pubblici: alcuni calcolano circa 7 milioni e mezzo di “mini-discorsi” che avrebbero coinvolto oltre centinaia di milioni di persone.

Quale è il profilo tipico dell’health influencer?

Un superesperto in grado di parlare con regolarità e competenza di temi sanitari e salute, con una community di follower di nostro interesse. Occorre fare un discorso molto differenziato da Paese a Paese. Ricordo che quando lavorai in Spagna, dal 2015 al 2016, le agenzie di comunicazione e relazioni pubbliche erano in grado di indicarmi almeno una ventina di health influencer molto rilevanti: tanto per capirci persone con pubblici superiori all’audience dei media di settore. In Italia solo da pochissimo si sono affermati alcuni health influencer e pochi sono in grado di raggiungere larghe audience.

Quali sono i principali influencer in questo ambito?

Roberto Burioni in primis, poi Salvo di Grazia (@MedBunker), ma per me sono importanti influencer anche Walter Ricciardi e Mario Melazzini. Tuttavia nell’ambito della salute, conviene davvero identificare le comunità di nostro interesse e quindi ad esempio mi focalizzerei molto sulle associazioni di pazienti e sui profili social che riescono a coagulare attorno a sé gruppi rilevanti di stakeholder nella patologia o sul tema di interesse. È all’interno dei gruppi di pazienti su Facebook che si creano dinamiche di informazione-influenza su temi di salute rilevantissimi; su Instagram oggi viene veicolata un importantissimo numero di informazioni sulla nutrizione – non sempre purtroppo in maniera corretta e responsabile.

Come le aziende farmaceutiche, i caregiver, i fornitori dei servizi per il paziente e i diversi attori del mondo sanitario possono impostare una campagna di comunicazione sfruttando la figura degli influencer?

Per fortuna ci troviamo in un settore fortemente regolato e, almeno in Italia e in Europa, è vietata una comunicazione incontrollata diretta ai pazienti. Gli influencer in sanità devono essere utilizzati per sensibilizzare a stili di vita corretti, per fare awareness sulle patologie e sui sintomi, per migliorare la comprensione di temi generali di interesse come possono essere i vaccini o l’utilizzo degli antibiotici, per dare visibilità a progetti e iniziative di advocacy. La comunicazione rivolta al paziente spetta però alla classe medica nei contesti adeguati. Come aziende dobbiamo impegnarci a restituire autorevolezza e credibilità a scienza e medicina, anche sensibilizzando il pubblico ad un utilizzo consapevole dell’informazione in sanità. In questo senso le aziende, ma anche le associazioni di professionisti della comunicazione, come Ferpi, possono svolgere un ruolo importante.

I nativi digitali e i servizi healthcare

Tempo di lettura: 4 minuti
Come possono i giovani nati con gli smartphone e l’accesso istantaneo alla rete adattare le loro vite frenetiche a un ambiente sanitario fatto di lunghe attese?

L’iter delle numerose telefonate, delle lunghe code per effettuare le prenotazioni, delle liste d’attesa per rivolgersi al proprio medico sono solo alcuni degli elementi che inducono gli under 30 a vivere l’accesso alla sanità con impazienza e insoddisfazione.

A dimostrarlo, infatti, alcuni studi svolti su quelli che vengono definiti i millennials. A differenza di quanto comunemente si può pensare si definiscono tali gli appartenenti alla generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e metà degli anni Novanta.

La popolazione che per prima è cresciuta con l’accesso al world wide web, attualmente ha tra i 25 e i 30 anni. Pertanto, una fetta sempre più grande di pazienti e fruitori dei servizi sanitari, presenta le caratteristiche riportate negli studi condotti.

Queste giovani generazioni cercano sempre di più servizi sanitari in grado di soddisfare le loro aspettative in termini di convenienza, efficienza ed efficacia. Richiedono soluzioni che si adattino ai loro ritmi quotidiani e non viceversa.

 

Personalizzare i servizi sulla base di esigenze sempre più smart, fast e digital

 Alcune analisi mostrano che i nativi digitali hanno caratteristiche che li contraddistinguono in modo netto rispetto alle altre generazioni.

Conoscere in maniera approfondita il proprio fruitore per proporgli soluzioni adatte alle sue esigenze prevede un lungo e approfondito lavoro di ricerca. Tramite la User Experience è possibile comprendere i comportamenti degli utenti, gli obiettivi e le loro necessità per progettare servizi e prodotti totalmente centrati su di loro.

Quando si lavora per i millennial, tra i primi aspetti da considerare c’è un certo agio nel raccogliere, curare e condividere dati. Questa fetta di popolazione vive il momento e apprezza l’utilizzo di software, chat e email per pianificare appuntamenti e gestire i propri impegni. Pertanto, i fornitori di servizi sanitari devono superare l’approccio one-size-fits-all alla luce del fatto che i più giovani sono abituati a esperienze sempre più personalizzate che provengono dal mondo del B2C come per esempio quella offerta da Amazon nel mondo dello shopping.

L’approccio sanitario si fa sempre più digitale: come riporta un sondaggio di Accenture infatti, il 51% dei nativi digitali intervistati ha dichiarato di utilizzare un’app mobile o un dispositivo wearable per gestire il proprio stile di vita e più della metà (53%) utilizza assistenti virtuali per monitorare condizioni di salute, farmaci e segni vitali. Pertanto, le relazioni tra medico, paziente, infermieri e associazioni, non possono che essere guardate alla luce di quelle che sono le offerte tecnologiche dell’ultimo decennio.

Come riporta una ricerca presentata nel 2018 dedicata al welfare, un italiano su cinque è pronto ad affermare che in futuro blog, forum e siti internet a cura di professionisti potranno sostituire in buona parte la figura del medico tradizionale. Sempre dai risultati di questa indagine scaturisce che il 66% degli italiani si rivolge al web per cercare informazioni e consigli di autodiagnosi e per capire come affrontare una certa patologia.

Si tratta di un positivo avvicinamento delle persone all’innovazione tecnologica, ma soprattutto all’utilizzo di device e di supporti Internet anche nel mondo sanitario. Tuttavia, il rischio che i pazienti possano incorrere in fake news online è alto, per questo è opportuno che sempre più operatori sanitari e attori del mondo healthcare si attivino per utilizzare la rete in modo professionale aumentando contenuti e supporti di qualità e arginando la disinformazione.

La medicina va in Rete

Sempre più italiani si dicono fiduciosi nei confronti degli effettivi vantaggi che la sanità digitale può apportare. Il 59% di quelli cha hanno partecipato alla ricerca del 2018, dichiara che tra i servizi ritenuti più utili ci sia al primo posto la possibilità di prenotare esami e visite specialistiche online. Per il 48% è fondamentale anche poter consultare referti clinici online e comunicare con il proprio medico direttamente su smartphone e in caso di necessità.

Nonostante sia un esempio tratto dal sistema sanitario svedese, diverso dal quello italiano, la proposta di “Min Doktor” può rappresentare un spunto all’avanguardia da studiare. Si tratta di un centro digitale per l’healthcare che offre visite mediche online che aiutano i pazienti con diagnosi, prescrizioni e referti.

I medici connessi a questo servizio come prima occupazione lavorano negli ospedali e offrono le loro consulenze sulla piattaforma online quando hanno del tempo extra. I pazienti si registrano al sito con il loro BankID e iniziano scegliendo la categoria che rappresenta meglio il loro problema. Ognuna di queste contiene una guida con un numero di domande da compilare circa i sintomi. Per chi vuole c’è la possibilità di allegare anche delle fotografie. Quando “il proprio caso” è completato, viene caricato sul portale e un medico che è online se ne prende carico. Di solito i tempi di attesa possono andare da una mezz’ora a 4 ore e il medico può richiedere un incontro telefonico o video con i pazienti se lo ritiene necessario.

Attualmente questa offerta è attivata solo per chi ha più di 18 anni, ma in Svezia si stanno svolgendo delle ricerche affinché possa essere esteso anche alla fascia più giovane della popolazione dei bambini.

Altro possibile sviluppo dei servizi healthcare riguarda l’utilizzo di contenuti in formato video per avvicinare e coinvolgere i pazienti nei propri processi di cura. I  millennial infatti hanno una probabilità tre volte maggiore rispetto alla generazione precedente di guardare un video sul proprio dispositivo mobile. Offrire loro contenuti audiovisivi personalizzati e interattivi è fondamentale; per questo il mondo sanitario dovrebbe investire nella realizzazione di video tutorial, interviste a esperti o brevi animazioni in grado di aiutare i nativi digitali ad accedere a informazioni di qualità in poco tempo e in un formato facilmente fruibile.

Video tutorial personalizzati per aumentare l’engagement del paziente

Tempo di lettura: 4 minuti
In che modo i contenuti audiovisivi interattivi e personalizzati possono aiutare a migliorare il coinvolgimento del paziente nel suo processo di cura? L’evoluzione nei servizi di comunicazione dell’healthcare è racchiusa in un video tutorial che ti chiama per nome.

L’uomo ricorda il 10% di ciò che vede, il 20% di ciò che ascolta, il 50% di ciò che vede e ascolta e l’80% di ciò che vede, ascolta e fa. Questi i dati riportati dallo studioso Malcom Knoeles. Citando il report proposto da VISTA – participatory VIdeo and social Skills for Training disadvantaged Adults, il materiale audiovisivo, specialmente se unito ad un certo grado di interazione, garantisce le condizioni per una memorizzazione più rapida ed efficace.  Richiamare l’attenzione su elementi importanti, attivare schemi mentali preesistenti, minimizzare il carico cognitivo, supportare il trasferimento di conoscenze e rendere più interessante il percorso di apprendimento sono solo alcune delle funzioni psicologiche che giustificano il ricorso al video nell’educazione degli adulti.

Il video è molto più vicino alla realtà di quanto non sia un testo scritto. Il materiale audiovisivo presenta infatti una pluralità di codici, proprio come avviene nella vita quotidiana. Perché non sfruttare le possibilità offerte dai contenuti video anche nell’ambito dell’healthcare dove engagement del paziente, educazione e miglioramento dell’aderenza terapeutica rappresentano le chiavi del successo per offrire un servizio sanitario in grado di migliorarne davvero la qualità di vita? Offrire prodotti video personalizzati e interattivi, capaci di coinvolgerlo e fornirgli un supporto è uno degli obiettivi della comunicazione in ambito sanitario.

Storytelling, medicina narrativa e tutorial personalizzati

Secondo quanto riportato in un report di FNOPI, emerge che in generale il video tutorial è un mezzo tutt’ora poco utilizzato nell’ambito dell’educazione sanitaria nonostante possa essere uno strumento utile per comunicare informazioni riguardanti la salute, soprattutto per il target meno “sanitariamente” alfabetizzato.

Da qualche anno la produzione video legata al mondo sanitario ha visto emergere diverse forme di audiovisivi legati principalmente a contenuti di storytelling del paziente o di medicina narrativa. Si tratta di strumenti che lavorano di più su una sfera emozionale, che sono in grado di mostrare spaccati di vita dei pazienti e delle loro battaglie quotidiane.

I video, però, possono essere declinati anche in formati più pratici, educativi e informativi in grado di aumentare l’engagement del paziente e renderlo un protagonista attivo del suo percorso di cura. Una produzione audiovisiva di questo tipo può avere una pluralità di funzioni. Al semplice tutorial in formato “how to” si possono affiancare veri e propri prodotti audiovisivi in grado di aiutare il paziente passo dopo passo nelle procedure terapeutiche, offrendo un quadro completo della cura in grado di aumentare la consapevolezza. Con la stessa finalità, si possono creare contenuti video in cui un esperto rispettato e fidato condivide informazioni preziose sotto forma di intervista, simulando un dialogo faccia a faccia con il paziente.

Personalizzazione e interattività  

Le due parole chiave per produrre video facilmente fruibili, che offrano davvero l’informazione giusta al momento giusto e che siano realizzati su misura per ogni tipologia di paziente, sono: personalizzazione e interattività.  Chiamare per nome il fruitore del video, offrirgli uno scenario realisticamente coerente con la sua quotidianità e proporre contenuti prettamente utili al suo scopo, sono degli strumenti già ampiamente conosciuti nei settori B2C, ma che nella sanità rappresentano una sfida molto più complessa. Per produrre contenuti che parlino direttamente ai pazienti è necessario un grosso lavoro a livello scientifico, di raccolta dati e informazioni.

Immaginiamo un paziente che ha a disposizione, su un qualsiasi device, a portata di mano, un tutorial; In formato animato, semplice, personalizzato sulle sue esigenze e sulla sua ruotine, che gli spiega non solo i processi per l’assunzione della terapia, ma anche i canali per contattare i diversi attori del mondo sanitario. Sarebbe un ottimo prodotto da integrare con i servizi di supporto al paziente per aumentare la qualità di vita dello stesso.  Affinché il fruitore dei video possa ricevere i contenuti che predilige, è opportuno rendere le produzioni audiovisive più interattive possibile. Per esempio, le aree interattive che reindirizzano ad approfondimenti specifici, possono essere utili per un duplice motivo: permettono al paziente di ottenere in poco tempo le informazioni di cui ha bisogno senza perdite di tempo e registrano in tempo reale gli interessi del fruitore. In ogni momento decisionale del video, si possono raccogliere dati sugli spettatori. I contenuti interattivi permettono di utilizzare questi dati immediatamente per adattare il video e la strategia in tempo reale migliorando la User Experience nei confronti del servizio.

Dalla teoria alla pratica

Nonostante i video personalizzati e informativi rappresentino un campo ancora poco esplorato, esistono già alcuni contesti sanitari in cui sono stati sperimentati.

Per esempio, Capsuled è una scatola smart utilizzabile per diverse terapie in cui all’interno non è presente solo il farmaco: una parte dello spazio è dedicata a un monitor touchscreen su cui possono essere mostrate diverse tipologie di contenuti audiovisivi e interattivi.

Grazie a tutorial realizzati specificatamente sulla terapia da seguire, il paziente può accedere con semplicità e velocità a informazioni utili per mantenersi aderente.

Inoltre, personalizzare i video sulla base del fruitore che li guarderà è l’aspetto distintivo di alcune delle produzioni realizzate per promuovere i servizi offerti dagli studi clinici. Raccogliere poche e chiare informazioni sui diversi pazienti come età e nome, permette di differenziare i contenuti partendo da un background di base uguale per tutti a cui vengono aggiunti questi dettagli.

 

 

Patient Engagement, essere protagonisti del proprio futuro

Tempo di lettura: 4 minuti

In che misura il paziente si sente coinvolto nel processo di cura? Il supporto che riceve è centrato sui suoi bisogni? La terapia è stata adattata il più possibile alle sue esigenze?

Migliorare la gestione della malattia, aumentare l’aderenza ai trattamenti e i comportamenti preventivi, incrementare la patient satisfaction e ridurre la spesa sanitaria è possibile. La chiave principale per raggiungere questi obiettivi è aumentare il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, in modo particolare attraverso il suo ascolto e l’inserimento della sua voce, delle sue idee nell’evoluzione decisionale per la strutturazione dei PSP.

Dagli studi condotti dal neo nato centro di ricerca EngageMinds Hub dell’Università Cattolica, su un campione di 1389 pazienti cronici italiani, 9 su 10 ritengono importante il loro coinvolgimento attivo nel processo di cura, ma solo 4 su 10 si sentono effettivamente coinvolti.

Ma cosa significa davvero Patient Engagement?

Tradotto letteralmente patient engagement vuol dire “coinvolgimento del paziente”. In ambito sanitario la nozione si concentra sul suo coinvolgimento attivo in tutto ciò che riguarda il suo percorso di cura.

La definizione si estende nelle evidenze presentate dal centro di ricerca EngageMinds Hub: “l’engagement rappresenta un processo complesso risultato dalla combinazione di diverse dimensioni e fattori di natura individuale, relazionale, organizzativa, sociale, economica e politica che connotano il contesto di vita della persona. L’engagement è funzione della capacità, della volontà e della scelta graduale delle persone di assumere un ruolo proattivo nella gestione della propria salute”.

Quando un paziente non si sente engaged, cosa succede?

Dal momento in cui un paziente riceve la diagnosi della propria malattia è chiamato a collezionare informazioni, seguire visite, controlli e finisce per subire in modo passivo decisioni che vengono prese per lui. Se questa condizione non muta il paziente rischia di rimanere nella fase in cui, sconvolto dalla sua malattia e condizione di salute, delega tutto al sistema. Fase che, dal PHE model ®[1], viene definita di Blackout. Seguendo questo modello, affinché il paziente possa arrivare a considerarsi di nuovo una persona, è necessario aiutarlo nell’elaborazione e accettazione della malattia, nonché spingerlo ad aumentare le sue conoscenze per fornirgli un’efficace comunicazione con i curanti che gli permetta di tenere sotto controllo la sua storia.

Se il paziente rimane nella fase di Blackout senza progredire nella scala dell’Engagement, le principali conseguenze riguardano un aumento dei costi della sanità, una scarsa aderenza alle terapie nonché un generale peggioramento del suo stile di vita.

 Da disease centred model a person centred model, il ruolo dei PSP e della UX

Uno dei passi fondamentali per portare il paziente ad approcciarsi in modo attivo alla propria patologia e alle terapie che lo riguardano è allargare il focus dal suo contesto sanitario a quello quotidiano nella gestione della sua cura. Conoscere il vissuto del paziente, la sua quotidianità, i suoi bisogni emotivi e relazionali è utile per coinvolgerlo in modo diretto nella costruzione del suo progetto di cura. Affinché il paziente possa aumentare i comportamenti preventivi e usare in modo appropriato le risorse a sua disposizione, un possibile strumento da mettere in campo è la User Experience. Attraverso una fase di ricerca iniziale è possibile raccogliere comportamenti, opinioni, frustrazioni, bisogni e frasi chiave. Tra i possibili risultati di queste analisi vi sono dei patient journey maps dalla presa di coscienza dei sintomi sino al follow up.

Gli stessi Patient Support Program sono strutturati in modo da rendere il paziente un partecipante attivo, un decisore in fase di programmazione. L’ascolto diretto di quelle che possono essere le sue proposte e un’analisi approfondita dei suoi bisogni rappresentano la base di partenza per la creazione del protocollo.

Il paziente esperto al centro di un complesso gioco di squadra

Aumentare l’engagement del paziente è un vero e proprio impegno collettivo che coinvolge i diversi attori del mondo dell’healthcare. Per prima cosa è necessario sensibilizzare e formare i professionisti sanitari e il team di cura, poi i caregiver che rappresentano un tassello fondamentale per garantire l’aderenza terapeutica e la continuità assistenziale.

Le associazioni dei pazienti rappresentano un punto fermo a cui rivolgersi: sono dei veri e propri trait d’union ufficiali tra la voce dei pazienti e il mondo delle istituzioni.

A tessere le fila di un sistema completo e organico è il paziente esperto. Si definisce paziente esperto quella persona che, pur partendo da un’esperienza di malattia propria o di un famigliare, decide di affrontare un percorso di formazione intensiva e di livello tecnico importante indipendente dalla specifica patologia, per poi mettere competenze ed esperienze a servizio della ricerca e della comunità.

Migliorare la capacità dei Pazienti di trasmettere la formazione all’interno delle loro organizzazioni e facilitare il dialogo alla pari del paziente con l’Industria, l’accademia, le autorità e i comitati etici sono solo alcuni degli obiettivi dell’attività di patient advocacy. Come riportato nell’articolo Paziente esperto, da passeggero a co-pilota della ricerca terapeutica? Questa figura ha la potenzialità di acquisire nei prossimi anni una rilevanza pari a quella dell’operatore sanitario, in grado di operare sia come soggetto attivo, responsabile di ricerca in gruppi o network di pazienti, sia come consulente della ricerca industriale o accademica per fornire pareri o consigli.

[1]Graffigna, G., Barello, S., Bonanomi, A., & Lozza, E. (2015). Measuring patient engagement: development and psychometric properties of the Patient Health Engagement (PHE) scale. Frontiers in psychology6, 274.; Graffigna, G., & Barello, S. (2018). Engagement: un nuovo modello di partecipazione in sanità. PENSIERO SCIENTIFICO EDITORE. L’utilizzo del modello è solo su base di licenza (contatto: guendalina.graffigna@unicatt.it)

 

 

L’innovazione tecnologica nei Patient Support Program

Esplorare le possibilità dell’innovazione applicata ai programmi di supporto al paziente, comprendere in che modo i nuovi strumenti digitali possano aiutare a migliorare la qualità di vita delle persone, sono le sfide del presente. Un primo premio per l’innovazione e ancora tanti traguardi da raggiungere.

Una piattaforma digitale che aiuta il paziente a seguire il percorso terapeutico e a migliorare la propria aderenza al monitoraggio della terapia. Un punto di contatto in più tra paziente e neurologo, un sistema in grado di facilitare il monitoraggio degli esami da parte dello specialista, è questa la proposta alla base di LemGo, il programma che si rivolge ai pazienti affetti da sclerosi multipla recidivante remittente, ritenuti idonei dal proprio neurologo.

E proprio a pochi giorni dalla settimana dedicata alla sclerosi multipla l’annuncio: il progetto, sviluppato da Sanofi Genzyme, divisione Specialty Care di Sanofi ed erogato da Healthcare Network Partners (HNP), ha vinto il premio “Innovazione in Sanità 2019” che la Fondazione San Camillo Forlanini offre ogni anno agli attori del mondo della sanità che sviluppano una proposta innovativa di alta qualità per l’assistenza al paziente.

LemGo è pensato per aiutare le persone con sclerosi multipla e i neurologi dei centri specializzati che li hanno in cura a migliorare l’aderenza al follow up, nel rispetto del Risk Management Plan (RMP), e la qualità di vita dei pazienti. Il PSP, completamente digitale, sfrutta le nuove possibilità offerte dalla tecnologia attraverso un servizio di remind che permette al paziente di rispettare gli appuntamenti per i controlli periodici e assicura la corretta trasmissione dei risultati degli esami al neurologo che lo assiste. Il PSP completamente digitale di LemGo sfrutta le nuove possibilità offerte dalla tecnologia

Innovare, ricercare e adattare le potenzialità offerte dal digitale al mondo dei servizi di supporto al paziente non è semplice, ma è fondamentale perseguire questo obiettivo per incrementare la qualità di vita delle persone aiutandole ad affrontare le difficoltà quotidiane nel modo più semplice e immediato possibile.

A raccontare in che modo un provider può affrontare questa sfida, lo stesso IT manager di HNP, Lorenzo Dina.

 L’innovazione tecnologica è in costante sviluppo, quanto è importante tradurre questa tendenza anche nel mondo dei Patient Support Program?

L’innovazione procede ad una velocità impensabile fino a qualche tempo fa e ci mette a disposizione strumenti, metodi e tecnologie maturi che sono ora facilmente accessibili sia in termini di diffusione che di costo. Tradurre la tendenza in componenti di servizio affidabili e applicabili anche ad un PSP è la mission della practice IT di HNP, creata nel 2018 per cogliere questa sfida. I PSP, se pur relativamente giovani, necessitano di un supporto sempre maggiore della tecnologia per ottimizzare i processi e la compliance, in modo da trasferire il maggior beneficio possibile al paziente che ne usufruisce.

In che modo un provider può aiutare un’azienda farmaceutica nel loro percorso di innovazione?

Il provider per la sua natura ha una struttura più snella di quella di un’azienda e per questo ha maggior libertà di azione nella sperimentazione e prototipazione su piccola scala di progettualità innovative. Dopo attenta validazione interna ed esterna le innovazioni possono essere scalate a vari livelli, inserite nei processi, introdurre vere e proprie piccole rivoluzioni in grado di abilitare servizi che diversamente rischierebbero di diventare obsoleti prima della loro introduzione nel mercato. Quando viene sposato quest’approccio il provider e l’azienda farmaceutica si sinergizzano a vicenda in una partnership dai benefici mutuali che hanno ricadute positive concrete sulla salute dei pazienti.

E il PSP LemGo in che modo si colloca nel concetto di innovazione di HNP?

L’innovazione è uno dei pilastri portanti di HNP e i continui investimenti nell’IT sono la dimostrazione tangibile di questo impegno. LemGo è il frutto di un lungo processo di progettazione partecipata tra i vari stakeholder, in un’ottica di scambio continuo e di ascolto che ha cambiato radicalmente le dinamiche classiche cliente – fornitore e ha introdotto più rapidamente, anche grazie ad una metodologia agile, le integrazioni necessarie a supportare i need raccolti sul campo durante il work in progress.

 Quale è la componente più innovativa di questo PSP?

LemGo è uno dei primi PSP digitali introdotti nel nostro Paese e il primo sviluppato da HNP per Sanofi Genzyme, divisione Specialty Care di Sanofi. Si occupa in modo innovativo di supportare i pazienti e i medici nel percorso di monitoraggio della terapia offrendo un sistema di remind e feedback multicanale dove ogni paziente può scegliere la modalità di contatto più vicina ai suoi bisogni. L’innovazione correttamente miscelata al contatto umano del nostro contact center fornisce il livello di servizio necessario a soddisfare la variegata demografia delle persone affette da Sclerosi Multipla.

Gli strumenti digitali a supporto dell’aderenza terapeutica


Tempo di lettura: 4 minuti

“Cosa succede se mi dimentico di assumere il farmaco? E se sbaglio l’orario?” Le nuove tecnologie possono aiutare a migliorare l’aderenza terapeutica e l’awareness del paziente.

Sbagliare l’orario di assunzione della terapia per molti è una normalità. Tanti pazienti, in particolare quelli con malattie croniche, non assumono i farmaci prescritti con regolarità, senza rendersi conto che sottovalutare l’aderenza terapeutica può portare a conseguenze anche gravi.

Un sondaggio del 2017 dell’EngageMinds Hub Research Center dell’Università Cattolica di Milano, ha rilevato che, su un campione di 1.000 malati cronici, il 70% è risultato non aderente in maniera completa alla terapia.

La situazione dipende soprattutto dalla scarsa conoscenza che le persone hanno di queste tematiche. Infatti, molti pazienti italiani non sanno nemmeno cosa significhi aderire alla terapia e riconducono a questo concetto definizioni che sono parziali o completamente sbagliate. Alcuni, per esempio, associano erroneamente l’aderenza terapeutica alla reattività del corpo a una determinata cura.

Come si raggiunge l’aderenza terapeutica?

Schematicamente si può affermare che vi è aderenza terapeutica quando si effettua la prestazione terapeutica giusta, nel modo giusto, al momento giusto e al paziente giusto.

La prestazione terapeutica giusta

Per i pazienti, soprattutto quelli affetti da patologie croniche, la gestione delle terapie concomitanti è molto complessa. Calendarizzare in modo dettagliato gli orari di assunzione con distanze temporali precise ed evitare di confondersi tra una terapia e l’altra, sono le principali difficoltà che portano molte persone a non avere una buona aderenza.

Il mondo del digitale può fornire ai pazienti degli strumenti che li aiutano ad assumere con regolarità tutti i farmaci che sono stati prescritti loro. Tra i device che rispondono a questo bisogno si menziona SimpleMed+ dell’azienda israeliana Vaica: un dispenser automatico di pillole che può essere programmato di settimana in settimana, dividendo i farmaci da assumere in massimo 4 momenti della giornata (mattino, pomeriggio, sera, notte). Nel caso in cui una persona si dovesse dimenticare si assumere il farmaco, riceverà un avviso, un sms sul proprio telefono o un’email. L’aderenza viene quindi registrata dal dispositivo e poi trasferita in un cloud sicuro che registra tutti i momenti in cui il paziente assume la propria terapia.

Nel modo giusto

Scarsa praticità delle modalità di assunzione del farmaco, difficoltà nel ricordare i procedimenti corretti da svolgere o ancora poca conoscenza in materia di aderenza terapeutica portano i pazienti a commettere degli errori a volte anche gravi.

Proprio per aumentare l’awareness e l’engagement delle persone, come suggerito in Intervention to improve medication adherence, vi sono diverse possibilità di intervento.

Una di queste è la legata all’uso di dispositivi che consentono al paziente di avere accesso a veri e propri video educazionali fruibili in qualsiasi momento. Per esempio, il prodotto Capsuled di Vaica è una scatola digitale in cui all’interno, oltre alla terapia da dover assumere, è presente uno schermo interattivo attraverso il quale il paziente può accedere a veri e propri video tutorial sulla corretta assunzione e somministrazione del farmaco.

In aggiunta all’educazione tramite video, Capsuled permette al paziente di contattare direttamente il provider del patient support program con un semplice touch dello schermo.

Al momento giusto

Per ricordarsi di assumere la terapia al momento opportuno, un supporto utile può essere dato dai reminder che sempre più spesso sono integrati nei dispositivi utilizzati nel mondo dell’healthcare. Vibrazioni, progressioni sonore, luci lampeggianti, sms e telefonate aiutano le persone a rispettare le tempistiche terapeutiche.

Anche il device Capsuled ha integrata la funzione di promemoria per l’assunzione del farmaco. Se il paziente assume la terapia in tempo, questo dato viene immediatamente registrato, altrimenti la persona viene contattata tramite sms, email o chiamata telefonica.

Oltre a ricordarsi di assumere con regolarità la terapia, è fondamentale anche tenere monitorato lo stock di farmaco, nonché valutare le tempistiche di consegna e le modalità di trasporto dello stesso. Capsuled ha inserito una funzione che aiuta i pazienti a ricordarsi dell’approvvigionamento del farmaco tramite un apposito promemoria o avvisa il provider nel caso in cui sia incluso anche un servizio di consegna domiciliare.

Al paziente giusto

La maggior parte delle strumentazioni offerte per la cura del paziente, il suo follow-upe il suo engagement devono essere impostate sulla base delle necessità e delle attitudini dello stesso. Anche nel caso dell’aderenza terapeutica, la chiave per l’ottenimento dei risultati migliori è la possibilità di personalizzare gli strumenti che supportano il paziente.  Proprio per questo motivo, il prodotto Capsuled è un dispositivo basato sulla personalizzazione. Attraverso lo studio della User Experience, analizzando le esigenze dei cluster di pazienti e costruendo vere e proprie personas, è possibile offrire uno strumento che risponda alle differenti esigenze di differenti gruppi di pazienti.

Self Reporting

Come viene monitorata l’aderenza terapeutica? Tanti tentativi sono stati fatti per aiutare le persone ad annotarsi i momenti di assunzione, ma non tutti hanno funzionato. Il diario terapeutico cartaceo, per esempio, è un supporto fondamentale per chi ha una scarsa alfabetizzazione tecnologica, ma non sempre è la migliore soluzione da offrire. Spesso viene compilato in modo affrettato poco prima della visita, con informazioni parziali e basate sul ricordo e non sulla registrazione puntuale. Un modo pratico per valutare l’aderenza del paziente alla terapia, è proprio il self reporting. L’auto-segnalazione, per quanto soggetta a intrinseche problematiche di sopravalutazione, è molto utile allo scopo. In modo particolare, se questa venisse coadiuvata dall’aiuto della tecnologia, porterebbe a risultati ancora più dettagliati e puntuali. Un ausilio in questo senso viene offerto dal device Capsuled che raccoglie automaticamente i dati relativi a ogni assunzione dei farmaci e tramite la connettività interna 4G li scambia con la piattaforma cloud a cui è collegato, in tempo reale. A seconda della patologia può diventare anche un punto di raccolta informazioni provenienti da altri dispositivi come ad esempio una bilancia o un glucometro ed è fondamentale per aiutare il medico a tenere monitorati in tempo reali i risultati del percorso di cura. In questo modo soluzioni innovative e focalizzate possono essere impostate velocemente.