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COVID-19, il supporto domiciliare durante il lockdown: la parola ai clinici

 

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Ce lo raccontano Maria Alice Donati (SOC Malattie Metaboliche e Muscolari Ereditarie- AOU Meyer – Firenze), Serena Gasperini (Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma) e Monica Cellini (U.O. Pediatria ad Indirizzo Oncologico Dipartimento Materno-Infantile Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Modena).

Tre Specialisti, tre regioni differenti tra loro, tre storie molto diverse, ma con un denominatore comune: la valutazione sui programmi di Home Therapy durante il periodo di lockdown è stata positiva e la speranza comune è che si possano mantenere attivi al termine dello Stato di emergenza.

La Lombardia è stata una delle regioni più colpite dalla pandemia da COVID-19 ma è anche uno dei territori che ha reagito con più determinazione anche grazie a un’esperienza decennale nei programmi domiciliari.“Il contributo dell’Home therapy è stato fondamentale per la gestione di bambini e adulti affetti da malattie lisosomiali soprattutto in una regione largamente e pesantemente colpita come la Lombardia-sottolinea Serena Gasperini-. Non frequentare l’Ospedale in un momento critico soprattutto nei mesi di lockdowntra marzo e giugno è stata accolta come un sollievo dalle famiglie e mai come preoccupazione. La possibilità di avere a disposizione una terapia a casa ha notevolmente alleggerito il pesante fardello delle famiglie che già convivono con una malattia cronica e rara con dinamiche diverse: l’ingresso di una figura professionale infermieristica o medica dentro le mura domestiche “protette”col timore del contagio non è stata vissuta con diffidenza, ma come un’opportunità. Le famiglie e i pazienti si sono sentiti “curati” nell’accezione anglosassone di “take care” proprio in un momento in cui avere a disposizione personale sanitario era molto prezioso e ammalarsi (non solo per COVID) era diventato molto pericoloso per le difficoltà di accesso alle cure. L’Ospedale è stato vissuto come fonte di contagio primaria, luogo di malattia e ambiente a elevato rischio dai pazienti, ma anche dal personale sanitario che ci lavora. L’esperienza di supporto telefonico che il nostro Centro di malattie Metaboliche di Monza ha avuto con le famiglie dei nostri piccoli pazienti è stata molto positiva: in caso di necessità noi eravamo vicini e la possibilità di sentirci per ogni evenienza ha contribuito a contenere la paura, affinché non diventasse panico. La speranza è che la possibilità di accesso alla home therapy possa andare oltre la pandemia anche in Regioni dove sinora non era possibile effettuarla”.

 La terapia domiciliare è stata vissuta dai Clinici come uno strumento per tutelare la salute di pazienti e familiari, garantendo la continuità terapeutica e al contempo riducendo gli accessi in Ospedale.

L’Home Therapy è stata molto importante per la mia attività di gestione del paziente – racconta Monica Cellini-. Per me sarebbe stato estremamente difficile poter proseguire con regolarità la terapia infusionale del paziente senza esporre lui e i suoi cari a rischi di contagio. La mamma del paziente che seguivo si è detta molto contenta soprattutto perché l’infermiere che andava a casa sua era rispettoso delle regole igieniche previste e inoltre mi ha detto che avrebbe avuto molta paura se avesse dovuto portare il bambino in Ospedale per svolgere le terapie. Penso che quello che è successo debba essere un motivo di profonda riflessione per tutte quelle regioni che ancora non hanno recepito questa esigenza. Il Covid-19 ha mostrato quanto la terapia domiciliare possa essere preziosa per pazienti fragili come quelli che devono effettuare terapia sostitutiva salvavita”.

 Se in Lombardia l’attività di Home Therapy era attiva da anni, in Toscana l’avvio di programmi domiciliari ai pazienti è stata una novità dell’emergenza sanitaria.

“Più volte in precedenza avevo discusso in ambito regionale dell’importanza dell’Home Therapy, ma non era mai stata data l’autorizzazione per avviarla- spiega Maria Alice Donati-.  Prima ancora della determina AIFA, avevo fatto richiesta per attivare programmi domiciliari almeno per i pazienti particolarmente fragili e alla fine mi era stata concessa. In questo contesto i pazienti e le famiglie credo abbiano sentito non un “abbandono” alla terapia domiciliare, ma un essere accompagnati e comunque un lavoro in sinergia. Oggi, la maggior parte dei nostri pazienti sono passati all’Home Therapy e sono rimasti esclusi solo i pazienti che per caratteristiche cliniche non potevano effettuarla a domicilio secondo quanto scritto nella delibera AIFA. La riduzione dell’attività per le terapie enzimatiche sostitutive in ospedale ha consentito una miglior impiego delle risorse umane e una eccellente gestione dei posti letto soprattutto in termini di sicurezza e distanziamento, inoltre diverso impiego di risorse umane. L’emergenza covid ha portato in questo caso ad una esperienza fortemente positiva e sia i pazienti/famiglie che i medici sperano possa proseguire anche nel dopocovid”.

La possibilità di attivare tempestivamente programmi di home treatment su quasi tutto il territorio Nazionale si è rivelato sia per gli Specialisti che per i pazienti un modo per offrire un supporto concreto in un momento veramente complicato.

Ora l’obiettivo di molti attori del mondo Healthcare è quello di far comprendere anche alle regioni più restie all’attivazione di programmi domiciliari le loro potenzialità, per implementare i PSP a livello nazionale.

COVID-19, uno storytelling di qualità per aiutare gli attori dell’healthcare

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Nei mesi appena passati, l’informazione sulla pandemia è stata la protagonista indiscussa su tutti i media, mettendo alla prova la nostra capacità di verificare la veridicità delle fonti e dei contenuti. Quale impatto ha avuto questo surplus mediatico per chi, come un paziente, si trova a fare i conti tutti i giorni con il tema della propria salute? Capire come cambia la propria convivenza con la malattia nella pratica quotidiana, come cambiano le possibilità di essere assistiti, quali protocolli di sicurezza vengono garantiti per chi fa parte di un programma di supporto è stato un tema di primaria importanza nella comunicazione operata dai provider del mondo healthcare.

In che modo si può realizzare una comunicazione che va oltre l’informazione? Raccontando delle storie che permettano la condivisione delle esperienze.

Le storie possono puntare la lente sui diversi attori, possono servire per dare un esempio di come una situazione così peculiare come quella appena passata abbia avuto risvolti positivi e negativi, proprio come ogni altro avvenimento. E per i provider di programmi di supporto, quali sono le storie che possono permettere la condivisione? Sono quelle di chi ogni giorno rimane accanto ai pazienti e continua la sua attività di infermiere, medico, psicologo, nutrizionista o fisioterapista. Queste storie racchiudono anche le paure di chi, tutti i giorni, è costretto a modificare il proprio ruolo attivo alla luce dei nuovi rischi che correrà nel proprio percorso terapeutico.

Spiegare le difficoltà e mostrare le preoccupazioni di pazienti e operatori della salute, fare emergere attraverso queste storie condotte virtuose, risaltare l’impegno per garantire la sicurezza di tutti coloro che sono coinvolti in una relazione, è un impegno, ma anche un’opportunità per il mondo healthcare.

Coronavirus, uno storytelling italiano

 Dopo la Cina, l’Italia è stato uno dei primi Paesi a dover prendere delle misure restrittive per arginare la diffusione del COVID-19 sul territorio nazionale. La salute è il tema più importante che riguarda le vite di tutti, e allora dove documentarsi? Che cosa cercare?

Da qui la scelta operata da molti professionisti della salute di sfruttare i canali social per veicolare le proprie narrazioni individuali e per cercare di rispondere agli interrogativi delle persone prima che queste rischiassero di trovare in rete soluzioni false o fuorvianti.

Accanto alle necessità informative di pazienti e caregivers, di fondamentale importanza è stata anche la narrazione funzionale a condividere esperienze tra gli operatori del mondo healthcare. Quando improvvisamente le prassi di supporto si sono dovute adattare alle normative contro la diffusione del COVID-19 e ai contatti diretti con i pazienti si sono sostituiti meccanismi di distanziamento sociale, tutto si è fatto più confuso e ha richiesto un adattamento che è stato spiegato non solo tramite circolari, ma anche con il racconto.

Gli operatori di HNP si raccontano

Cosa significa essere un infermiere che si occupa di terapia domiciliare ai tempi del Coronavirus? In che modo si può continuare il proprio lavoro di psicologo o psicoterapeuta a distanza?

Come si possono adattare sedute fisioterapiche e nutrizionali nel rispetto dei nuovi standard di sicurezza? Come si gestisce il contatto con i propri pazienti quando viene richiesto di mantenere una distanza di sicurezza? Quando un operatore sanitario può, per il suo ruolo, diventare una figura di cui avere paura perché supporta tanti pazienti e quindi può diventare veicolo del virus?

Lo si può fare con una corretta informazione ai pazienti, una corretta formazione agli stessi operatori, ma anche chiedendo a questi ultimi di raccontare cosa stanno vivendo, per capire come agire e migliorare il supporto.

HNP ha sviluppato un progetto di storytelling per raccontare, in primis a tutti i suoi operatori e di conseguenza anche a tutti i suoi interlocutori, cosa ha significato continuare a prendersi cura dei pazienti proprio attraverso il racconto di chi non ha mai smesso di occuparsi di Patient Support Programs.

Grazie ai racconti di Valentina, Anisoara, Sarah, Gaia, Alessio, Orazio, Roberta, Davide, Alessandro, Fausto, Francesca, Alfonsina e Giulia – che sono solo alcuni degli infermieri, fisioterapisti e psicologi che compongono la rete HNP – Healthcare Network Partners ha costruito un quadro più che mai realistico e concreto di quello che è stato fatto per garantire la continuità di supporto e trattamento nella sicurezza di pazienti e operatori.

 

 

 

 

 

Il supporto nutrizionale a distanza

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La situazione emergenziale causata dal Covid-19 ha aperto ai Biologi Nutrizionisti la possibilità di effettuare le consulenze da remoto ed elaborare diete online, fornendo assistenza anche da distanza.

Essere guidati dal punto di vista alimentare – quindi di salute – in un momento così difficile sotto numerosi aspetti, è stato molto utile per raggiungere gli obiettivi prefissati, evitando che fattori quali pigrizia, disinteresse e poca cura verso sé stessi prendessero il sopravvento.

Il risultato di questa apertura? Notevoli miglioramenti all’interno dei propri nuclei famigliari grazie a nuove e fondamentali abitudini alimentari.

Come influisce la distanza quando si parla di nutrizione all’interno di un PSP?

La creazione di un regime alimentare deve rispettare la personalizzazione, ma allo stesso tempo deve tenere conto della necessità di creare un supporto in grado di rispondere a un approccio valido per tutti i suoi utilizzatori.

Attraverso la componente nutrizionale, il PSP può rispondere alla necessità dei pazienti di adeguare e perfezionare il proprio modo di alimentarsi anche da remoto, migliorando l’aderenza alla terapia.

Tra i principali obiettivi del supporto nutrizionale c’è la modifica delle abitudini alimentari non corrette indirizzando il paziente verso una corrispondenza con le linee guida previste per la patologia in questione.

Gli strumenti messi in campo possono variare a seconda degli obiettivi, ma alcuni di questi si dimostrano versatili: realizzare un materiale formativo che riesca a fare chiarezza sulle scelte alimentari inappropriate può costituire un buon punto di partenza.

I cambiamenti vanno successivamente messi in pratica, come?

Ad esempio attraverso la compilazione di un diario alimentare appositamente studiato, in formato digitale o cartaceo a seconda del tipo di paziente, che possa funzionare da auto-check permettendo quindi al paziente di prendere coscienza delle proprie abitudini non corrette che andranno trasformate in un atteggiamento alimentare positivo in grado di supportare e migliorare la propria condizione fisica.

Nella trasformazione delle proprie abitudini diventa fondamentale studiare, creare e assegnare degli obiettivi settimanali o mensili che devono essere successivamente verificati dal professionista stesso o da personale appositamente formato. La scelta dei mezzi per gestire un percorso a obiettivi è ricca: in questi mesi i canali più utilizzati sono stati principalmente quelli tramite voce e video. Quest’ultimo consente, in mancanza di un rapporto frontale, di stabilire un contatto empatico, aspetto che può incentivare il paziente a farsi guidare attraverso l’instaurazione di un rapporto di fiducia.

Il monitoraggio passa anche dalla determinazione delle misure antropometriche come l’altezza, il peso e le circonferenze. Infografiche, video tutorial che spieghino come effettuare le rilevazioni permette la gestione a distanza di una pratica che potrebbe rivelarsi motivo di sconforto, disagio e difficoltà pratica.

Le combinazioni di strumenti e tecniche a distanza viene studiata volta per volta a seconda delle caratteristiche del supporto richiesto tenendo sempre presente un obiettivo: offrire un sostegno efficace nella gestione della patologia.

Il counselling psicologico ai tempi del Covid-19: strumenti e tecniche per il supporto

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L’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia ha portato con sé numerosi stressor (elementi fonte di stress) con effetti ancora più marcati su determinate categorie a rischio.

La necessità di limitare gli spostamenti e il conseguente isolamento all’interno delle mura domestiche, la paura del contagio e la messa in atto dei comportamenti di prevenzione, il distanziamento sociale e più in generale una quotidianità sensibilmente mutata, hanno aumentato la pressione psicologica su tutta la popolazione e, in misura rilevante, sui pazienti con malattie croniche e i loro caregiver.

A partire dalla periodica visita di controllo in ospedale con il proprio medico di fiducia fino alla sospensione dei centri diurni, il paziente e i suoi famigliari si trovano ad affrontare un necessario processo di adattamento a cui si contrappongono anche l’invadente sensazione di vulnerabilità verso una malattia che può essere asintomatica e la paura di contrarre il virus e di trasmetterlo ai propri cari.

Si delinea perciò uno scenario ricco di nuove emozioni e di nuovi pensieri per il paziente e il caregiver, che in molti casi sperimentano intensi e prolungati stati d’ansia capaci di sfociare in attacchi di panico, in meccanismi di controllo ossessivi o in eccessive canalizzazioni degli stati emotivi attraverso il cibo.

Nell’ottica di un approccio multidisciplinare, in questa situazione straordinaria, lo psicologo agisce con un duplice ruolo: verso il paziente, offrendo sostegno e supporto psicologico e psicoeducativo e nei confronti della famiglia e della rete di supporto come facilitatore della comunicazione e della relazione.

Gli strumenti validi sempre – in aggiunta al classico supporto di persona – vanno dal sostegno a distanza, il cui obiettivo primario deve essere quello di favorire una migliore regolazione delle emozioni e contenere i vissuti d’ansia e paura specifici di questo momento, all’implementazione delle reti di supporto sociale attraverso la creazione di gruppi virtuali che offrano uno spazio di condivisione e sostengano la condivisione, riducendo l’isolamento sociale.

Per offrire un supporto adeguato al contesto emergenziale, è quindi fondamentale identificare quelle modifiche della routine che provocano disagio e un’alterata sensibilità nei confronti della patologia e dell’ambiente circostante, attivando nuove forme di sostegno che sfruttino metodi e mezzi di comunicazione alternativi.

Un esempio di come il supporto psicologico debba adattarsi alle nuove condizioni imposte dalla pandemia è il caso di Maria*, affetta da patologia cronica, la cui modifica della prassi terapeutica di somministrazione e le necessarie precauzioni aggiuntive adottate dai caregiver hanno portato a un improvviso innalzamento dei livelli d’ansia che ha generato frequenti attacchi di panico.

Nel contesto domestico, e ancora di più oggi in cui tutti si trovano spesso insieme in casa, la privacy può essere molto limitata, per cui con Maria siamo ricorsi a quello che abbiamo chiamato insieme “il bollettino”: un tipo di supporto centrato sul riconoscimento delle emozioni e sulla loro mentalizzazione, effettuato tramite uno scambio di e-mail a cadenza regolare.

Per i momenti più critici abbiamo invece fatto uso di brevi telefonate, che hanno permesso anche l’utilizzo di specifiche tecniche di respirazione e di grounding (radicamento) per affrontare i fenomeni più acuti legati alla gestione dell’ansia.

Fondamentale è stato poi sostenere anche il nucleo familiare nella co-gestione della cronicità, favorendo lo scambio con gli operatori sanitari così da garantire continuità al processo terapeutico-assistenziale e rinforzare le risorse della famiglia e della rete di supporto.

*(nome di fantasia)

La relazione terapeutica ai tempi del Coronavirus: la storia di Alfonsina

Dal 9 marzo le nostre vite sono state stravolte, le nostre certezze minacciate. Un grosso tumulto emotivo ci ha travolti, quasi come se stessimo osservando la nostra vita da una finestra, come se non ci appartenesse… non può essere! Non è possibile!  Il Covid 19 ha stravolto i nostri ritmi biologici e psicologici, le nostre relazioni, si è impadronito della nostra libertà.

Dopotutto, fino all’inizio della pandemia, la città di Wuhan non era altro che una parte di mondo sconosciuta, lontana da noi sia fisicamente che emotivamente.  Si è fatto spazio dentro di noi la consapevolezza che tutto è cambiato in modo dirompente, e dopo un primo momento di incredulità e distacco dalla realtà, la rabbia la paura e lo sgomento hanno scandito il ritmo giornaliero del nostro mondo interiore. Sono cadute le certezze, dando spazio all’amara consapevolezza dell’assenza dell’altro, dei rapporti sociali, di una quotidianità data per scontata ed ora tanto desiderata.

Il nostro lavoro come psicoterapeuti è stato “aggredito” nel suo aspetto fondamentale, il generatore di cambiamento attraverso la certezza dell’esserci… la relazione.

La relazione è fatta dell’incontro nel setting, di dialoghi, d’incroci di sguardi, di vissuti espressi con il linguaggio del corpo, attraverso quei sospiri impercettibili che solo la condivisione dello spazio “terapeuta paziente” mette in comunione e fa cominicare fra loro.

Anche noi psicoterapeuti siamo stati chiamati ad un cambiamento, cambiamento necessario a trasmettere ai nostri pazienti il nostro esserci nelle loro vite. In questa emergenza abbiamo fatto ricorso alla strutturazione di un setting “diverso”, nato nei byte, fatto di clic e di videochiamate. Ci siamo adattati creativamente al nuovo. Nonostante le difficoltà, le sofferrenze, abbiamo colto e rimandato ai nostri pazienti due cose importanti: vivere con la consapevolezza che il Covid 19 è fra di noi, ma nello stesso tempo mantenere viva e pulsante la speranza che genera energia e voglia di far fronte al dolore e alle sofferenze. Il nostro ruolo in questo tempo è stato di accoglienza, condivisione e presenza.

Una paziente, infermiera, ha trovato nei nostri incontri l’unico spazio dove poter dare voce alle sue angosce, alla sue paure. L’ambiente di lavoro si è trasformato in un bacino di emozioni forti, intense e devastati: paragonava l’entrare in reparto come il varcare la trincea in guerra, con un compagno di viaggio costantemente presente, lo spettro della paura della morte. Il solo pensare di poter essere contagiata dal virus la devasta, ed ancor di più la terrorizza l’idea della possibilità che essa stessa possa veicolare il virus della morte ai suoi cari, non riuscirebbe a sopravvivere al senso di colpa.

Il suo ruolo gli impone di dare coraggio, stabilità, mantenere alto il livello di guardia, ma nello stesso tempo trasmettere la speranza che “andrà tutto bene”.

Il supporto emotivo ai tempi del Coronavirus: la storia di Francesca

Covid-19. Emergenza sanitaria. Lockdown.
Sono parole che risuonano nelle nostre case ormai da alcuni mesi e con loro ne sono arrivate altre: paura, dolore, incertezza. Della malattia, della perdita, del futuro.

Ognuno ha il proprio modo di vivere ed esprimere questo momento attraverso emozioni complesse e spesso difficili da gestire e, nel confronto con i miei pazienti e i miei colleghi, ho capito che la parola d’ordine come psicoterapeuti non poteva che essere una: flessibilità.

Flessibilità nel gestire il processo clinico e nell’apertura a nuove forme e mezzi di comunicazione.

Come con Giorgia*, madre single di un giovane con una patologia cronica, che si è rivolta al supporto psicologico per la prima volta perché sopraffatta dall’ansia di essere sola e di dover proteggere il figlio da questo nuovo virus.

Con Giorgia abbiamo iniziato un breve sostegno tramite videochiamata grazie alle quali abbiamo potuto fare anche alcuni esercizi per imparare a gestire i momenti più difficili.

La videochiamata non è un mezzo del tutto nuovo nel supporto psicologico e, in casi come questo, dove il manifestarsi violento e improvviso del disagio è reso più acuto dal confinamento all’interno delle mura domestiche, risulta particolarmente efficace come porta verso l’esterno e come realizzazione della presenza di una rete di supporto su cui contare.

Antonio*, invece, caregiver di professione, teme di portare il virus a casa dai suoi cari e ai suoi pazienti. L’idea di questo rischio in poco tempo è passata da semplice timore passeggero a una vera e propria paura che gli rende complesso svolgere il suo lavoro con la necessaria calma e serenità.

Per lui e per tutti i suoi colleghi, impegnati in prima linea, è stato aperto immediatamente uno sportello di ascolto, per garantire un luogo sicuro e protetto in cui poter condividere queste emozioni.

In questo momento il primo obiettivo che ci poniamo come psicoterapeuti è soprattutto quello di permettere alle persone che necessitano di supporto di prendere coscienza della natura dell’emergenza e di riconoscere che si tratta di una straordinaria esperienza collettiva in cui siamo tutti coinvolti senza eccezioni.

È fondamentale quindi comprendere che non siamo soli nella paura, nel dolore e nell’incertezza e che esiste una rete di supporto capace di aiutare a comprendere e abbracciare le nuove emozioni e andare oltre grazie alle proprie risorse personali.
Per fare questo, in un momento in cui le relazioni e la comunicazione tra le persone sono profondamente intaccate dalle misure di contenimento, la flessibilità nell’approccio è la chiave per offrire il miglior supporto possibile.

* (nomi di fantasia)

 

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Alessandro

Nonostante l’infermiere domiciliare non sia in prima linea (tra i reparti di malattie infettive e  terapie intensive) nella “lotta al covid”, si trova di fronte a una grande battaglia da combattere: gli spetta il compito di continuare ad assistere sul territorio pazienti ad alta complessità assistenziale – che in questo momento più che mai, mostrano, in aggiunta alle difficoltà gestionali e alla cronicità della situazione di base, la paura di poter contrarre il virus.

Un virus che, potrebbe determinare esiti infausti per la salute di questi pazienti che si trovano in una condizione di base già precaria.

In questo momento i contatti all’interno di situazioni ospedaliere o ambulatoriali sono fortemente limitati e sconsigliati, di conseguenza l’infermiere domiciliare diventa ancora di più il punto di riferimento per coloro ai quali è garantita questo tipo di assistenza.

L’infermiere domiciliare si occupa perciò, oltre che dell’assistenza infermieristica di base, di supportare psicologicamente pazienti e familiari e di promuovere un’azione informativa e formativa, che miri alla sensibilizzazione delle pratiche alle quali attenersi perla prevenzione ed il controllo dell’infezione da Covid-19.

Tra i vari aspetti trattati nell’azione informativa, di fondamentale importanza risulta la parte relativa l’utilizzo dei DPI (dispositivi di protezione individuale) quali mascherine chirurgiche, che devono necessariamente essere utilizzate dal personale infermieristico che si reca a domicilio, ma anche dal paziente e dai caregivers; al fine da promuovere un’azione di protezione bidirezionale.

Spesso l’infermiere domiciliare si trova a fronteggiare situazioni in cui i propri utenti sono spaventati e hanno paura che chi eroga l’assistenza a domicilio possa essere vettore per la trasmissione del virus, essendo lo stesso a contatto con numerosi pazienti e rispettive famiglie.

Anche in queste situazioni, per quanto spiacevoli, il ruolo dell’infermiere è quello di tranquillizzare il paziente con professionalità e illustrare le misure di prevenzione che vengono attuate con e per ogni paziente; al fine di evitare la possibilità che i pazienti o i loro familiari rifiutino l’assistenza, con importanti ripercussioni sullo stato di salute del singolo e su tutto il sistema sanitario.

Questa emergenza sanitaria sta determinando una forte prova per la sanità pubblica e per chi ha scelto di prestarvi servizio.

Le azioni svolte da tutto il personale medico e infermieristico arricchiranno il bagaglio esperienziale di ciascun professionista, che continuerà a metterlo in campo anche quando l’emergenza sarà finita.