Il ruolo dell’Industria farmaceutica nel favorire il patient engagement: strumenti a disposizione

Tempo di lettura: 3 minuti

Health-coaching, visite infermieristiche mirate, portali, educazione sulla patologia e device per il monitoraggio da remoto sono solo alcuni degli strumenti che possono essere utilizzati per incentivare l’engagement del paziente cronico.

Ingaggiare il paziente significa renderlo attivo nella gestione della propria cronicità. Un paziente attivo risulta essere più aderente alle terapie. Un paziente attivo è anche in grado di orientare il sistema sanitario verso modelli di assistenza maggiormente centrati sui bisogni dei pazienti con un conseguente risparmio complessivo per il sistema sanitario globale. Questi elementi sono al centro delle discussioni istituzionali degli ultimi tempi: quale ruolo può giocare l’industria farmaceutica in questa partita del patient engagement e quali strumenti ha a disposizione?

Il ruolo delle Pharma

Il ruolo è molteplice: ingaggiare il paziente nello sviluppo dei farmaci, per creare prodotti sempre più centrati sulle reali esigenze e sul burden della malattia. Nelle aziende farmaceutiche, il coinvolgimento dei pazienti ha un impatto su diverse aree tra cui la ricerca e la gestione del portafoglio, lo sviluppo del prodotto nonché l’accesso al mercato, ai servizi e alla progettazione degli stessi. L’inclusione sistematica del punto di vista del paziente in tutte queste aree rappresenta un cambiamento di paradigma che un numero crescente di aziende sta abbracciando.

Inoltre, in una logica collaborativa pubblico-privata, l’Industria può esprimere il proprio valore mettendo a disposizione servizi che supportano medici, operatori sanitari, caregivers e in ultimo il paziente stesso nel rendersi attivo per la gestione della propria cronicità.

Patient engagement, strategie di ingaggio e strumenti utili

Per favorire l’attivazione dei pazienti è necessario incontrarli dove cominciano il loro percorso assistenziale (es. ospedali, post-acute care facilitities), ma soprattutto dove vivono ogni giorno e supportarli nella gestione della loro complessa e cronica situazione. Servizi o programmi di supporto mirati all’engagement del paziente possono includere al loro interno una molteplicità di strumenti che mixano tecniche tipiche dell’ambito della comunicazione, della psicologia ed educazionali, possibilmente coadiuvati dalla tecnologia.

La scelta di questi strumenti è uno degli step nella definizione di una strategia di engagement su cui è importante focalizzarsi per garantire l’efficacia ai propri investimenti.

Definire una strategia di engagement significa rispondere a domande quali: ma che aspetto ha un paziente coinvolto? Su quali obiettivi e PROs (patient-reported outcomes) focalizzarsi? Quali sono le metriche per la loro misurazione (scale, KPI, etc.) e le tecniche di rilevazione di tali metriche? Quali strumenti sono i più idonei per mettere in atto tale strategia?

Parlando di strumenti, tra questi vi sono l’health coaching e la formazione che possono essere fruiti de visu, via telefono o tramite tecniche di ingaggio digitale.

Il cosiddetto health coaching consiste nell’affidarsi a professionisti formati per supportare i pazienti nella gestione del proprio stile di vita e nel mettere in atto quei cambiamenti necessari ad adattare il proprio lifestyle alla patologia. Le basi dell’health-coaching si fondano su colloqui motivazionali durante i quali gli obiettivi autodeterminati dal paziente vengono discussi e reiterati dagli operatori, facilitando i cambiamenti comportamentali nel tempo.

La formazione del paziente nelle sue varie forme – educazione sulla patologia, educazione alla gestione delle reazioni avverse, empowerment per il dialogo con figure sanitarie e altre – è uno di questi strumenti. E quando si parla di educazione, è importante tener conto di livelli di alfabetizzazione sanitaria e needs differenti, compresa la necessità di includere caregivers e membri della famiglia per aumentare l’efficacia degli interventi formativi.

Tecniche di ingaggio digitale  

Ruolo fondamentale per il tema del patient engagament lo hanno le tecniche di ingaggio digitale, quali campagne email, portali e app che rappresentano valide possibilità per trasferire informazioni sanitaria, aumentare l’awareness e rendere l’engagement un allenamento quotidiano nella vita del paziente.

Professionisti del sistema socio-sanitario verso il patient engagement

Alla base di un’applicazione efficace di queste metodologie vi è la sensibilizzazione e la formazione dei professionisti del sistema socio-sanitario verso le tecniche che loro stessi possono utilizzare per l’engagement del paziente. Dalla prima conferenza di consenso italiana “Raccomandazioni per la promozione del patient engagement in ambito clinico-assistenziale per le malattie croniche” è emerso che per sensibilizzare, formare e coinvolgere i professionisti sanitari e il team assistenziale è necessario promuovere una “cultura dell’engagement” attraverso azioni concrete che toccano diversi ambiti. E anche in questo caso l’industria farmaceutica può giocare un ruolo importante.

Patient ambassador, un aiuto peer-to-peer per i pazienti

Tempo di lettura: 3 minuti

“Come ti sei sentito al momento della diagnosi?”

“Sono spaventato perché sento che la mia vita cambierà, tu ti sentivi così?”

Arriva la diagnosi e ogni paziente si trova a vivere un momento cruciale nella sua journey di malattia. Imparare a convivere in un nuovo assetto, quello di malato, è estremamente complesso, molto spesso genera dubbi e sensi di inappropriatezza.

Negli ultimi anni la cura si accompagna ad un altro bisogno fondamentale: quello di condivisione.

A volte i pazienti hanno bisogno di altri pazienti

 “Altri pazienti ti possono aiutare. Hanno (o hanno avuto) la tua condizione, così come le tue ansie e domande. I loro percorsi possono essere istruttivi e utili e possono aiutare a prepararti per il prossimo appuntamento con il medico”. Così scrive Aaron E. Carroll, professore di pediatria alla Indiana University School of Medicine, descrivendo come anche nel mondo sanitario valga una delle attitudini più comuni dell’essere umano: il confronto con chi si ritiene simile.

Già all’inizio degli anni 2000, a fianco delle più tradizionali Associazioni di Pazienti, sono nati i primi blog, forum e siti web in cui i pazienti hanno cominciato a condividere le proprie esperienze e a rispondere alle domande di altri che si trovavano nella loro stessa situazione.

Ma se, invece di cercare online, si potesse trovare l’appoggio di un altro paziente all’interno del proprio programma di supporto?

I patient ambassador nei PSP

In alcuni programmi di supporto si sta delineando in modo sempre più marcato la figura di un paziente che, avendo già vissuto una parte del percorso di cura, diventa un vero e proprio riferimento per altri che ancora devono affrontarlo. Questa tipologia di paziente può essere definita ambassador.

Nelle survey di qualità che di prassi vengono somministrate ai pazienti inseriti in un PSP, uno dei bisogni che emerge con più frequenza è quello di avere un paziente più esperto appartenente allo stesso programma con cui condividere i pensieri, le preoccupazioni e le domande che sorgono nella quotidianità. Un aiuto peer-to-peer che non si sostituisca mai alla figura dello Specialista ma che possa aiutare in tutti quegli aspetti soft che comporta l’essere malato.

Il ruolo e la formazione dei patient ambassador

Il ruolo del paziente ambassador può quindi diventare una componente chiave in progetti di supporto al paziente, e per questo deve essere studiato e regolamentato.

Questa figura deve ricevere una formazione sull’importanza della riservatezza delle informazioni che riceve, sulle modalità di trasferimento e sulla gestione delle stesse. Attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione digitale, dei social network, delle chat e dei forum di discussione, il rischio di mettere online informazioni sensibili è sempre più alto. Per questo motivo è importante che i profili emergenti nel mondo helthcare ricevano anche una formazione più tecnica per risultare complianti alle nuove regole del GDPR.

Fornire un supporto ad altri pazienti, richiede che questi ambassador lo ricevano a loro volta, per evitare che il peso emotivo di cui si prendono carico non sfoci in situazioni di burnout.

Rivivere alcune situazioni attraverso le preoccupazioni e le paure di chi le sta affrontando, può portare questi pazienti a influenze sulla propria emotività. Per questo, può risultare utile un percorso con una figura di counsellor in grado di offrire un supporto passo dopo passo.

Come si sceglie un paziente ambassador?

Ci sono scale e questionari che dipendono dal tipo di supporto che viene richiesto: selezionare il giusto patient ambassador deve tenere conto del tipo di supporto disegnato. Due variabili determinanti possono essere rappresentate dal livello di engagement nel suo percorso di cura e dal suo “stay in PSP”.

Si tratta di un ruolo che ancora presenta confini poco delineati, ma che indubbiamente nasce da un bisogno forte dei pazienti. Pertanto, una delle sfide attuali del mondo healthcare è quella di formare al meglio le nuove figure dei patient ambassador, rendendoli testimoni credibili, con basi solide e supporto necessario per essere al meglio vicino agli altri pazienti.

PSP: la partnership Pharma provider per la creazione di valore

Tempo di lettura: 3 minuti

Passare dal concetto di “cura” a quello di “prendersi cura” è alla base delle attuali sfide in ambito sanitario ed è anche il fondamento dei Patient Support Programs.

Far conoscere ai futuri manager del settore sanitario e biomedicale le novità riguardo ai PSP, ma soprattutto illustrare loro il punto di vista delle aziende che li utilizzano è fondamentale.

Per questo motivo, HNP da qualche anno cura nel Master in Management del Settore Sanità, Pharma e Biomed del Sole 24 Ore Sanità un modulo dedicato ai PSP, in cui vengono presentate agli studenti le evoluzioni, l’operatività e le svolte digitali dei Programmi di Supporto al Paziente.

Quest’anno, Luana Casetti, Marketing Manager di Akcea Therapeutics e Susanna Amoresano, Responsabile PSP e coordinatrice emofila e medical affair di Bayer, hanno portato in aula le loro esperienze di Pharma che usufruiscono dei PSP.

Le due realtà mostrano come i PSP possano trovare applicazione in fasi differenti del ciclo di vita di un prodotto farmaceutico, dal lancio alla maturità di un prodotto e in aree terapeutiche che presentano alcune analogie e molte differenze.

Entrambe le testimonianze hanno evidenziato un punto in comune: come la relazione tra Azienda e provider possa essere cruciale nella creazione del valore per tutti i destinatari dei PSP, tanto in aree terapeutiche dove questi sono una novità – come nel caso di Akcea – quanto in quelle come l’emofilia dove sono considerati degli standard di servizio, come spiega Amoresano.

Akcea Therapeutics, che opera in un’area dove il PSP non è considerato standard ma innovazione, ha raccontato davanti ad un’aula di futuri manager del settore Sanità il suo impegno nella creazione di valore per pazienti e medici.

In che modo i Patient Support Programs rispondono alla vostra strategia aziendale? 

“Akcea Therapeutics lavora con costante impegno per sviluppare nuovi trattamenti volti a trasformare la vita dei pazienti con gravi malattie rare. La nostra organizzazione è presente in Italia dal 2018, siamo quindi una realtà giovane e fortemente innovativa. In questo contesto è indispensabile agire coinvolgendo i pazienti affetti dalle gravi patologie rare contro le quali operiamo e tutti gli interlocutori che ruotano intorno ad essi. I PSP sono quindi cruciali per supportare il percorso terapeutico e i bisogni di pazienti e caregiver; sono altresì importanti per differenziare Akcea Therapeutics come un’azienda che non è semplicemente un fornitore di prodotti, ma una realtà capace di affiancare in maniera affidabile e continuativa sia il sistema sanitario che il paziente. La scelta di un provider, come spiegato nel corso della testimonianza, risulta cruciale per la buona riuscita di un PSP”.

Trovarsi davanti ad un’aula a presentare delle case histories di successo può essere considerato un esempio di partnership Pharma – provider?

“Sì, senza dubbio. Solo tramite un costruttivo e collaborativo rapporto tra provider e azienda è possibile configurare un servizio che vada incontro alle reali esigenze dei pazienti. La partnership tra Akcea Therapeutics e HNP è funzionale all’identificazione dei bisogni dei pazienti che non sono mai uguali per tutti, ma che si differenziano da persona a persona, e permette di ascoltare e rendere unico ogni paziente. Poterlo raccontare ad un’aula di futuri manager del mondo della sanità, confrontandosi in maniera franca e costruttiva, non può che rafforzare la solida partnership già esistente tra Akcea Therapeutics e HNP, fungendo anche da serbatoio di idee per migliorare e innovare ulteriormente la nostra proposta di valore”.

Healthcare Service Design: tools & tips per progettare un patient support program

Tempo di lettura: 3 minuti
Unmet needs, patient journey, service blueprint, stakeholder map, process engineering sono solo alcuni degli strumenti da mettere in campo per realizzare programmi healthcare snelli e centrati sulle esigenze dei pazienti.

Garantire la sostenibilità di un sistema sempre più caratterizzato da vincoli di budget, bisogni differenziati e sempre più personalizzati, rappresenta la sfida principale che tutti gli attori del sistema sanitario nazionale e internazionale affrontano ogni giorno e che si trova al centro dei principali dibattiti sui nuovi modelli assistenziali.

E i programmi di supporto al paziente? Siano essi di aderenza terapeutica, educazione sanitaria, lifestyle support o qualsiasi altra forma di gestione della cronicità, sono stati riconosciuti come strumenti a disposizione per razionalizzare le risorse, rispondendo al contempo ai bisogni sempre più personalizzati degli attori coinvolti.

Per poter mantenere la promessa di incrementare i patient outcomes risparmiando i costi, il programma deve essere snello, user-friendly, duttile, standardizzato, ma anche personalizzato. Gli stessi attori che si cimentano nella sua creazione – siano essi, farmacie, ospedali, cliniche private, industrie farmaceutiche o medical device company – devono riuscire a mantenere ruoli e comunicazioni chiari ed efficaci.

Ma quali sono le leve e gli strumenti utili per farlo?

Il Service Design è un approccio alla progettazione che ha bisogno di competenze differenziate: mediche, analitiche, di ascolto, di ingegnerizzazione di processo e IT, che devono essere orchestrate in modo efficace attraverso la scelta di differenti strumenti a disposizione. L’obiettivo è offrire un servizio eccellente nel modo più veloce ed economico possibile.

Quali sono gli step alla base di questo approccio?

Prima regola: un ascolto continuo

Il bisogno dei destinatari del programma si identifica mettendo in atto processi continui di ascolto su vari canali: un blog per pazienti o medici, per esempio, diventa uno strumento essenziale per monitorare costantemente gli unmet needs all’interno di una specifica area terapeutica. Anche le interviste strutturate, se condotte ciclicamente su un campione di popolazione, possono essere un metodo efficace di audit dei bisogni dei pazienti e della comunità scientifica.

Gli unmet needs, a cui il programma deve rispondere, vanno approfonditi e soprattutto quantificati. Esistono diversi strumenti utili allo scopo quali i focus group – per indagare gli aspetti più qualitativi e costruire mappe di esperienza, o i questionari per quantificare e targhettizzare le categorie di benefici, dimensionando gli eventuali investimenti da impiegare nella costruzione del programma.

Seconda regola: una costruzione partecipativa

La costruzione di un programma che risponda ai bisogni di una pluralità di attori necessita di considerare la loro prospettiva, siano essi pazienti, medici, ospedali, farmacie, istituzioni, etc. I service advisory board sono strumenti utili all’ascolto di medici, o ancora i panel di discussione e le tavole rotonde istituzionali dove può assumere un importante valore il ruolo del paziente esperto.

Il confronto tra i vari attori può essere stimolato sulla base del patient journey di una specifica patologia.

Terza regola: processi snelli e user-friendly

Il programma, come qualsiasi organizzazione, funziona se fondato su processi snelli e user-friendly. Per questo è utile combinare strumenti di process engeneering e user experience.

Qui troviamo strumenti quali il service blueprint e il process mapping, che sono rappresentazioni semplificate della sequenza di attività. Il primo si focalizza sulle interazioni tra i vari attori e sui touchpoints sui quali è necessario porre l’attenzione affinché l’esperienza di tutti i destinatari coinvolti sia positiva. Il secondo si focalizza sulla serie di attività e sui flussi, al fine di non incappare in colli di bottiglia o inefficienze informative nella fruizione del programma.

Quarta regola: attestare il valore del programma

Non c’è da sorprendersi che in un’epoca in cui si inizia a comprendere il valore dei dati, l’Industria e i providers di programmi ad alto valore aggiunto siano chiamati a mostrare evidenze statistiche della loro efficacia e del valore apportato dalla loro offerta. Proprio in questo punto entrano in gioco strumenti quali la customer satisfaction, che può essere progettata in fase di design e ciclicamente somministrata agli utenti del programma, i case report su dati clinici raccolti e i report su dati di aderenza clinica che producono considerazioni cliniche e farmaco-economiche.

 

BETHCARE, il diabete ha il suo primo PSP

Il prossimo dicembre si avvierà il primo programma che, come suggerisce il suo nome, ha una missione chiara: prendersi cura dei bisogni dei pazienti affetti da diabete di tipo 2.

Attraverso il supporto non condizionato di Novo Nordisk si da il via a un servizio che vuole offrire un supporto al paziente diabetico a 360 gradi.

“Creiamo valore attraverso un approccio basato sulla persona”, è questo lo statement di Novo Nordisk che ha guidato la creazione del PSP a partire da un punto di partenza ben preciso: l’analisi dei bisogni dei pazienti.

La raccolta delle storie di chi vive quotidianamente questa malattia, la condivisione delle paure, delle frustrazioni ma anche dei traguardi è stato il risultato di un’attività di User Experience fondamentale per selezionare le componenti di valore per un PSP così ambizioso.

I risultati di questi focus group sono stati la base di partenza che, assieme al materiale scientifico, è servita per creare un programma di supporto che spazia dall’alimentazione agli stili di vita, passando per la gestione degli aspetti più emotivi legati alla patologia, emersi come un bisogno fortemente sentito dai pazienti.

La tecnologia? Ricopre un ruolo importante, ma non è l’unico canale per poter usufruire del PSP, per rispondere alle abitudini di un paziente che può preferire il canale analogico a quello digitale.

BEthCARE ha una ambizione: favorire l’engagement del paziente attraverso un supporto personalizzato.

Lo scorso 19 Novembre questo lavoro profondo e attento è stato condiviso con i CAD che partiranno col progetto pilota in un kick off meeting moderato dai due Key Opinion Leader: il Dr. Bossi, Responsabile dell’UOC Malattie Endocrine – Centro Regionale Diabete mellito dell’ASST di Treviglio e il Dr. Manunta Responsabile dell’UO di Diabetologia – Casa di Cura Triolo Zancla di Palermo. L’occasione ha permesso di presentare i dettagli del PSP e fare in modo che I CAD coinvolti siano parte attiva di questo importante progetto volto a migliorare la qualità di vita dei pazienti coinvolti.

Formazione, il valore delle relazioni e della collaborazione nell’healthcare

Tempo di lettura: 3 minuti
La velocità delle connessioni internet aumenta e i digital device permettono di fruire di qualsiasi tipo di materiale multimediale senza rallentamenti o difficoltà, comodamente dal proprio divano di casa. Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione ha favorito l’evoluzione di sistemi per la formazione a distanza anche nel mondo healthcare, come soluzione a problemi logistici ed economici. Ma l’e-learning può sostituire completamente la formazione tradizionale fatta di corsi di aggiornamento periodici e lezioni in aula a fianco di altri professionisti del settore? La relazione, la collaborazione diretta e l’incontro rappresentano un tassello fondamentale per la crescita personale e lavorativa delle risorse umane nell’healthcare.

A spiegare l’importanza di integrare questi due approcci formativi è proprio Sara Elisabetta Masi, HR Manager presso Healthcare Network Partners (HNP).

In una realtà molto diffusa sul territorio come HNP, che unisce professionalità diverse, perché è così importante trovare un momento in cui incontrarsi fisicamente? In che modo questo metodo si affianca alla formazione a distanza?

“L’importante crescita sul territorio che ci ha caratterizzato in questi anni e i molteplici e differenti programmi che quotidianamente realizziamo ci hanno portato a dover integrare diverse metodologie formative in base agli obiettivi che vogliamo perseguire. Per questi motivi, abbiamo privilegiato la formazione a distanza – possibile grazie alle nuove tecnologie, per trasferire in modo tempestivo e capillare le competenze tecnico-professionali teoriche legate alle patologie e ai protocolli – e quella on the job (affiancamenti sul campo) per approfondire sul campo le competenze acquisite.

Quando però, in ottica di miglioramento continuo, abbiamo la necessità di confrontarci per rileggere i processi e ripensare i protocolli, l’incontro in aula è fondamentale. Nei programmi erogati è di grande importanza la comprensione delle esigenze dei nostri pazienti e di come queste si modificano nel tempo: l’aula in tal senso non è più solo il luogo della lezione frontale teorica, ma è il luogo per mettere in atto un processo bottom up capace di ascoltare chi opera quotidianamente sul territorio al fine di rimettere in discussione anche le nostre routine organizzative se necessario. È con questo scopo che abbiamo organizzato eventi formativi che hanno messo in aula più di 80 colleghi infermieri: aggiornamento, allineamento e dunque definizione di standard condivisi a livello nazionale, ma anche confronto sulle difficoltà e criticità che gli infermieri incontrano quotidianamente al fine di individuare soluzioni organizzative condivise”.

 Quanto è importante superare l’approccio frontale della formazione e rendere l’incontro maggiormente interattivo?

“Durante gli incontri formativi con gli operatori healthcare, prevediamo generalmente interventi frontali capaci comunque di lasciare spazio a domande e a momenti di discussione. Per favorire il confronto, sviluppiamo case studies partendo da situazioni reali raccolte negli anni. In piccoli gruppi, i nostri operatori si possono confrontare per individuare soluzioni alle diverse situazioni proposte, allineandosi su eventuali differenti modalità di agire. Grazie a simulazioni, case studies, role playing, perseguiamo anche un altro meta-obiettivo: quello di permettere alla nostra rete di professionisti di  conoscersi, di associare volti a nomi e di sapere che ci sono colleghi in regioni vicine e lontane ai quali poter chiedere supporto e che sono disponibili al confronto”.

 Quando si parla di formazione, l’innovazione sta proprio nella collaborazione.  La formazione non arriva più solo dalle risorse umane, ma anche chi la riceve fornisce un contributo attivo. Per sottolineare il contributo degli operatori healthcare nello sviluppo del loro stesso aggiornamento e della loro crescita professionale, abbiamo chiesto un parere a Lorenzo Mazzarella, Territory Manager Nurse di HNP.

 Quanto è importante che la formazione non sia solo top down, ma bottom up? 

“Ci sono molti aspetti che al giorno d’oggi portano un’azienda a rivedere le modalità di formazione dei collaboratori: flessibilità, tempi ristretti, tecnologia sempre più pervasiva, contenimento dei costi e soprattutto l’esigenza di coinvolgere professionisti con un importante mix generazionale; la formazione frontale top down sta lasciando il passo ad un modello bottom up e circolare.

Siamo nell’era in cui le informazioni circolano orizzontalmente sui social, nelle community e nelle chat; i formatori dovranno essere sempre più abili a lasciare la standardizzazione della formazione e aprire le porte alla personalizzazione, alla condivisione e alla collaborazione con la popolazione aziendale.

Sarà il livello delle conoscenze e competenze dei collaboratori, oltre agli obiettivi formativi aziendali, a guidare i nuovi percorsi di crescita culturale e innovazione aziendale coinvolgendoli come attori di questo nuovo paradigma formativo.

La nuova aula sarà così formata da partecipanti attivi nelle simulazioni su casi concreti, nella condivisione di esperienze, nello scambio di conoscenze e nel confronto; un’aula aperta, luogo di nuove esperienze che non terminano alla fine della giornata, ma che proseguiranno attraverso il social learning e alle nuove piattaforme di formazione digitale”.

L’utilizzo dei dati sanitari raccolti nei PSP tra Privacy e GDPR

Tempo di lettura: 3 minuti
In un mondo sanitario che si sta modellando sulla spinta delle nuove tecnologie che introducono nutrite potenzialità di raccolta, di calcolo e di analisi, i dubbi in merito ai limiti imposti dalla legge nel trattamento dei dati non fanno che crescere.

Sono tante le domande che gli operatori sanitari del mondo healthcare si pongono sui cambiamenti introdotti dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

E alla luce delle recenti discussioni in materia di Real World Evidence e Real World Data, sono consistenti anche le perplessità riguardo all’utilizzo dei dati raccolti dai Programmi di Supporto al Paziente (PSP).

I PSP fanno del monitoraggio costante del paziente il loro principale ingrediente, si basano sulla raccolta di dati e conseguentemente di evidenze, ma in che modo possono essere maneggiate queste informazioni?

Per cercare di dare una risposta a questi quesiti, abbiamo fatto qualche domanda all’Avvocato Silvia Stefanelli che da anni offre consulenza nelle diverse tematiche inerenti il diritto sanitario.

  • Quali sono stati i principali cambiamenti introdotti dal GDPR sui dati sanitari?

I cambiamenti più rilevanti sono senza dubbio quelli relativi alla base di liceità del trattamento.

Mentre il trattamento del dato sanitario nella precedente architettura normativa della dir 95/46/CEE e del “vecchio” Codice Privacy era (quasi) sempre il consenso del paziente, nel nuovo GDPR sposta l’attenzione sulla finalità di trattamento.

In altre parole è la “ragione”  per cui i dati vengono trattati che ne determina la base di liceità: così se il dato viene trattato per finalità di diagnosi, assistenza e terapia (art. 9 lett. h) e chi lo tratta è un professionista sottoposto al segreto professionale, non occorrerà alcun consenso perché la base di liceità sarà direttamente nell’art. 9 comma 2 lett h  e art. 9 comma 3 del GDPR; viceversa, se la finalità è diversa (per esempio la soddisfazione del paziente) oppure manca il requisito di cui all’art. 9 comma 3 (trattamento da parte di soggetto sottoposto al segreto professionale), occorrerà cercare un’altra base di liceità di trattamento, che presumibilmente potrà essere il consenso del paziente.

  • È possibile e con quali “accortezze” utilizzare i dati acquisiti nell’ambito dell’erogazione dei servizi assistenziali?

Si, certo. Anzi i dati relativi alla salute sono considerati un “bacino” di informazioni molto importante. È lo stesso GDPR che al Considerando 157 spiega l’importanza dell’utilizzo dei dati contenuti nei registri anche per finalità diverse rispetto a quelle per cui i dati sono stati raccolti e al Considerando 159 ci spiega che la nozione di ricerca scientifica del GDPR deve essere interpretata “in senso lato e includere ad esempio sviluppo tecnologico e dimostrazione, ricerca fondamentale, ricerca applicata e ricerca finanziata da privati, oltre a tenere conto dell’obiettivo dell’Unione di istituire uno spazio europeo della ricerca ai sensi dell’articolo 179, paragrafo 1, TFUE”.

Chiaro che il trattamento dei dati sanitari per finalità diverse da quelle di diagnosi e cura deve comunque rispettare in primo luogo (e tra gli altri), i principi di liceità e trasparenza: vale a dire che occorre identificare con esattezza la finalità del trattamento – e quindi, di conseguenza, identificare la base giuridica del trattamento – rispettare il principio di trasparenza, cioè informare in maniera chiara e completa il paziente delle finalità di trattamento (attraverso l’informativa) e valutare la corretta base giuridica di trattamento.

  • Il dato raccolto nei PSP può essere utilizzato per effettuare analisi di Real Word Evidence, quali sono i passaggi necessari per farlo correttamente?

È una domanda molto complessa che oggi non ha una risposta chiara. Io credo però che il quadro normativo permetta alcune considerazioni.

La Real Word Evidence è un’analisi dei dati raccolti nell’ambito della somministrazione di un farmaco al di fuori di un trial controllato.

Allora, sotto il profilo trattamento dato, il punto cardine è – a parer mio – quello prima analizzato: quale è la finalità di questa analisi che viene effettuata sui dati reali e chi tratta questi dati. Facciamo qualche esempio.

Se la finalità è la valutazione della soddisfazione, o della aderenza del paziente al farmaco o dispositivo, potremmo essere di fronte ad un trattamento per la customer satisfaction oppure una farmacovigilanza o sorveglianza post marketing del dispositivo medico, per le quali occorrerà cercare la corretta base di trattamento anche a seconda di chi è il titolare di questo trattamento, nonché verificare che il paziente sia stato informato di tale trattamento ulteriore.

Se viceversa il trattamento dei RDW ha come finalità quella di estrarre informazioni finalizzate ad una verifica di natura scientifica, allora i riferimenti normativi possono cambiare. In questo caso il quadro normativo si complica perché, mentre il GDPR disciplina solo la ricerca scientifica (art. 89), il nostro Codice Privacy distingue tra ricerca scientifica con dati sanitari (art. 107 del Codice) da ricerca medica ed epidemiologica (art. 110 del Codice privacy), senza però chiarire la distinzione tra la nozione di “scientifico” da quella di “medico”.

La domanda, pertanto, non ha una risposta univoca: la stessa va sempre cercata nelle finalità del trattamento.

 

 

Real World Evidence, la sfida italiana

Tempo di lettura: 3 minuti

RWE. Una parola che genera al contempo attrazione, come ogni nuova tendenza che inizia a diffondersi in un ambito lavorativo, ma anche diffidenza, poiché le modalità di applicazione dell’RWE hanno contorni ancora poco definiti e chiari.

Dal teorico studio accademico, gli operatori del mondo healthcare, vorrebbero vedere la Real World Evidence declinata in strumenti quotidiani che possano rendere tangibili le possibilità di questo approccio.

Ma, concretamente, cosa significa cogliere la sfida che il nuovo paradigma dei Real World Data ci sta ponendo?

Partendo dalla definizione, secondo quanto riportato dalla Food and Drug Administration  nel 2016, la Real World Evidence è l’evidenza clinica relativa all’uso e ai potenziali benefici o rischi di un prodotto medico derivato dall’analisi dei Real World Data (RWD – “dati del mondo reale”). L’evidence deriva da un accurato piano di ricerca e di analisi, predefinito e successivamente interpretato. La FDA ha già delineato come sia possibile utilizzare sia i Real World Data che le loro evidenze per monitorare la sicurezza post mercato, gli eventi avversi e per prendere decisioni normative. La comunità sanitaria potrebbe servirsene per valutare linee guide e scelte di pratica clinica. La comunità dei pazienti potrebbe beneficiarne nell’ottenere cure sempre più personalizzate in base al proprio profilo di salute. L’Industria potrebbe utilizzarli per dimostrare il valore del proprio prodotto in tutte le fasi del ciclo di vita, dallo studio clinico alla sua maturità. Ad esempio, attraverso una valutazione dell’unmet need clinico per lo sviluppo di una nuova terapia, una valutazione del budget-impact per la fase di accesso di un nuovo prodotto, uno studio di aderenza o uno studio del valore apportato dal servizio in caso di rinegoziazione di un farmaco e così via.

RWE e la sfida dell’accesso al dato

Uno dei motivi per cui in Italia l’RWE non è così utilizzata risiede nelle fonti del dato, molto eterogenee, e che spesso risultano di difficile accesso e non organizzate in database completi e fruibili in breve tempo.

Le cartelle cliniche informatizzate non presentano formati standard, vi è una mancata uniformità dei database amministrativi e questi ultimi non sempre sono di semplice fruizione, sia per motivi più tecnici legati alle strutture e alle conformazioni dei database, che per difficoltà legate ai permessi di accesso, le difficoltà incontrate dai centri clinici nel poter impostare un follow-up puntuale della malattia. Sono queste le difficoltà che quotidianamente affronta chi decide di cogliere la sfida posta dal nuovo paradigma della RWE.

Come i servizi a domicilio si inseriscono nella grande sfida dei dati

Una delle fonti del dato ancora poco considerata quando si parla di RWE è quella dei dati derivanti dai servizi di home-therapy che possono rappresentare, per la comunità scientifica, gli strumenti attraverso i quali raccogliere un insieme cospicuo di dati strutturati con metodologie continuative, programmate e regolate. Un efficace strumento per generare un solido pattern di dati durante un lungo periodo di tempo. Monitorare l’andamento di un valore, valutare il grado di aderenza a una terapia e gestire eventuali effetti collaterali in modo sicuro e affidabile.

Un esempio di tale utilizzo è lo studio del 2017 svolto su 85 italiani affetti dalla malattia di accumulo lisosomiale di Anderson Fabry, grazie al contributo di Caregiving Italia, ora parte di Healthcare Network Partners. I risultati raccolti durante il periodo di home therapy, di un anno e undici mesi, hanno riportato:

– Un aumento di aderenza al trattamento dei pazienti al 100% (primaperdevano 1 infusione su 10) ;

– L’incremento della qualità di vita del paziente.

Questo studio, tra le altre cose, è stato utile per affermare il modello dell’home-therapy come good practice in molte regioni italiane.

Strutturare una raccolta dati che possa generare evidenze scientificamente valide e utili rappresenta un mezzo per prendere decisioni a vantaggio di tutti gli attori: dai pazienti – per una migliore e corretta terapia, all’industria – per dimostrare il valore apportato, alle istituzioni – in ottica dell’implementazione del cost-saving.

Quando il supporto si fa viaggiando

Tempo di lettura: 3 minuti
“Domani scade il bando per il tirocinio in Spagna, vorrei davvero andarci, ma i miei sono preoccupati per la terapia e anche io non so come fare”.

“Voglio studiare cinema a Roma, ma i miei sono preoccupati che stando lontano da casa io non possa curarmi come devo”

 “Quest’anno i miei amici hanno deciso di fare la scuola di surf in Portogallo un mese prima di iniziare a studiare, ci va anche Alessio… spero solo che la dottoressa mi permetta di farlo”.

Voglia di viaggiare, di non avere confini per svolgere il proprio lavoro e per studiare o semplicemente per potersi godere una vacanza come i propri coetanei. Questi sono solo alcuni fotogrammi della vita dei giovani: aperti al mondo, pronti a viaggiare e consapevoli delle tante opportunità che li aspettano fuori dalle mura di casa. Questi sono i pensieri che caratterizzano anche le persone affette da patologie croniche: dietro la cartella clinica che riporta i dosaggi dei farmaci, la calendarizzazione delle assunzioni e gli esami del sangue, ci sono prima di tutto delle persone che non vogliono vivere una vita in funzione della terapia, ma vogliono la flessibilità di quest’ultima in funzione delle loro scelte.

Il mondo healthcare si prende carico anche di queste esigenze? Come riporta il Piano Nazionale delle Cronicità caregivers, dottori, infermieri e tutte le altre figure che fanno parte del processo di cura del paziente, dovrebbero svolgere un’analisi integrata dei bisogni globali del paziente per garantire un processo di cura come un vero e proprio accompagnamento fatto di percorsi integrati, personalizzati e dinamici.

In questo contesto i Programmi di Supporto al Paziente possono avere un ruolo cruciale nell’analizzare le necessità dei pazienti per offrire loro percorsi di cura flessibili, che si adattano perfettamente alle loro esigenze, anche quelle di mobilità.

Le malattie croniche aumentano, insieme alla voglia di viaggiare

In Italia le malattie croniche sono in crescita. Secondo quanto riportato da AdnKronos, queste patologie l’anno scorso hanno interessato quasi il 40% della popolazione della Penisola per un totale di 24 milioni di italiani, con 12,5 milioni affetti da multi-cronicità. Il dato è in aumento.

In contemporanea, però, l’Italia si è posizionata sul podio dei Paesi europei con il maggior numero di giovani che decidono di prendere la valigia e partire. Alla domanda “hai già viaggiato da adulto?” il 97% risponde positivamente: si tratta del dato più alto, eguagliato solo dai giovani spagnoli.

Negli ultimi anni, oltre al numero di viaggi che i ragazzi svolgono per divertimento, stanno crescendo anche gli studenti che decidono di partire per completare la propria carriera universitaria con un’esperienza di qualche mese all’estero. Solo nel 2017, sono stati 36.000 gli studenti che sono partiti dagli atenei italiani per un’esperienza Erasmus sia per studiare in un’altra nazione che per svolgere un periodo di tirocinio in un’azienda estera.

Il tema della cronicità e della necessità di viaggiare dei pazienti è un punto cruciale dell’evoluzione dei programmi di supporto al paziente.

PSP: ascoltare e programmare per viaggiare

Anna ha 24 anni e quando era alle elementari le è stata diagnosticata una malattia rara da accumulo lisosomiale. Da allora, ogni settimana svolge la terapia enzimatica a casa, grazie al programma di supporto al paziente. L’anno prossimo vorrebbe svolgere un master in Germania per un semestre, in uno dei centri di ricerca più all’avanguardia d’Europa. Non vuole rinunciare a questa opportunità e insieme al suo medico e al suo service provider imposta un piano per organizzare la sua partenza.

Il caso di Anna rappresenta il prototipo di una delle innumerevoli storie di giovani pazienti che come lei sentono il bisogno di potersi spostare. Gli operatori del mondo healthcare hanno iniziato a studiare proposte flessibili di percorsi di cura personalizzati sulle esigenze dei più giovani sempre più in mobilità.

Se la terapia si sposta all’estero il primo passo è quello di garantire nel paese di destinazione la presenza -grazie a partnership certificate – di provider che garantiscano gli stessi standard di qualità e sicurezza mediante personale qualificato e formato secondo standard definiti. Laddove sia necessario è fondamentale organizzare il trasporto del farmaco: spesso i pazienti devono risolvere il problema di trasportare terapie che devono essere mantenute a temperatura controllata. In questi casi il service provider deve organizzare il trasporto e la consegna dalla Farmacia dispensatrice italiana fino al luogo di destinazione.

Permettere ai pazienti di vivere appieno le loro vite senza rinunce consente di vincere l’idea che le cronicità possano determinare il declino di aspetti della vita come l’autonomia, la mobilità e la vita di relazione con il conseguente aumento di stress psicologico.

Studiando i bisogni reali del paziente e unendo competenze sanitarie, logistiche e le nuove opportunità fornite dalle tecnologie é possibile creare un supporto flessibile e sempre al passo con i nuovi bisogni dei pazienti.

Patient Engagement, essere protagonisti del proprio futuro

Tempo di lettura: 4 minuti

In che misura il paziente si sente coinvolto nel processo di cura? Il supporto che riceve è centrato sui suoi bisogni? La terapia è stata adattata il più possibile alle sue esigenze?

Migliorare la gestione della malattia, aumentare l’aderenza ai trattamenti e i comportamenti preventivi, incrementare la patient satisfaction e ridurre la spesa sanitaria è possibile. La chiave principale per raggiungere questi obiettivi è aumentare il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, in modo particolare attraverso il suo ascolto e l’inserimento della sua voce, delle sue idee nell’evoluzione decisionale per la strutturazione dei PSP.

Dagli studi condotti dal neo nato centro di ricerca EngageMinds Hub dell’Università Cattolica, su un campione di 1389 pazienti cronici italiani, 9 su 10 ritengono importante il loro coinvolgimento attivo nel processo di cura, ma solo 4 su 10 si sentono effettivamente coinvolti.

Ma cosa significa davvero Patient Engagement?

Tradotto letteralmente patient engagement vuol dire “coinvolgimento del paziente”. In ambito sanitario la nozione si concentra sul suo coinvolgimento attivo in tutto ciò che riguarda il suo percorso di cura.

La definizione si estende nelle evidenze presentate dal centro di ricerca EngageMinds Hub: “l’engagement rappresenta un processo complesso risultato dalla combinazione di diverse dimensioni e fattori di natura individuale, relazionale, organizzativa, sociale, economica e politica che connotano il contesto di vita della persona. L’engagement è funzione della capacità, della volontà e della scelta graduale delle persone di assumere un ruolo proattivo nella gestione della propria salute”.

Quando un paziente non si sente engaged, cosa succede?

Dal momento in cui un paziente riceve la diagnosi della propria malattia è chiamato a collezionare informazioni, seguire visite, controlli e finisce per subire in modo passivo decisioni che vengono prese per lui. Se questa condizione non muta il paziente rischia di rimanere nella fase in cui, sconvolto dalla sua malattia e condizione di salute, delega tutto al sistema. Fase che, dal PHE model ®[1], viene definita di Blackout. Seguendo questo modello, affinché il paziente possa arrivare a considerarsi di nuovo una persona, è necessario aiutarlo nell’elaborazione e accettazione della malattia, nonché spingerlo ad aumentare le sue conoscenze per fornirgli un’efficace comunicazione con i curanti che gli permetta di tenere sotto controllo la sua storia.

Se il paziente rimane nella fase di Blackout senza progredire nella scala dell’Engagement, le principali conseguenze riguardano un aumento dei costi della sanità, una scarsa aderenza alle terapie nonché un generale peggioramento del suo stile di vita.

 Da disease centred model a person centred model, il ruolo dei PSP e della UX

Uno dei passi fondamentali per portare il paziente ad approcciarsi in modo attivo alla propria patologia e alle terapie che lo riguardano è allargare il focus dal suo contesto sanitario a quello quotidiano nella gestione della sua cura. Conoscere il vissuto del paziente, la sua quotidianità, i suoi bisogni emotivi e relazionali è utile per coinvolgerlo in modo diretto nella costruzione del suo progetto di cura. Affinché il paziente possa aumentare i comportamenti preventivi e usare in modo appropriato le risorse a sua disposizione, un possibile strumento da mettere in campo è la User Experience. Attraverso una fase di ricerca iniziale è possibile raccogliere comportamenti, opinioni, frustrazioni, bisogni e frasi chiave. Tra i possibili risultati di queste analisi vi sono dei patient journey maps dalla presa di coscienza dei sintomi sino al follow up.

Gli stessi Patient Support Program sono strutturati in modo da rendere il paziente un partecipante attivo, un decisore in fase di programmazione. L’ascolto diretto di quelle che possono essere le sue proposte e un’analisi approfondita dei suoi bisogni rappresentano la base di partenza per la creazione del protocollo.

Il paziente esperto al centro di un complesso gioco di squadra

Aumentare l’engagement del paziente è un vero e proprio impegno collettivo che coinvolge i diversi attori del mondo dell’healthcare. Per prima cosa è necessario sensibilizzare e formare i professionisti sanitari e il team di cura, poi i caregiver che rappresentano un tassello fondamentale per garantire l’aderenza terapeutica e la continuità assistenziale.

Le associazioni dei pazienti rappresentano un punto fermo a cui rivolgersi: sono dei veri e propri trait d’union ufficiali tra la voce dei pazienti e il mondo delle istituzioni.

A tessere le fila di un sistema completo e organico è il paziente esperto. Si definisce paziente esperto quella persona che, pur partendo da un’esperienza di malattia propria o di un famigliare, decide di affrontare un percorso di formazione intensiva e di livello tecnico importante indipendente dalla specifica patologia, per poi mettere competenze ed esperienze a servizio della ricerca e della comunità.

Migliorare la capacità dei Pazienti di trasmettere la formazione all’interno delle loro organizzazioni e facilitare il dialogo alla pari del paziente con l’Industria, l’accademia, le autorità e i comitati etici sono solo alcuni degli obiettivi dell’attività di patient advocacy. Come riportato nell’articolo Paziente esperto, da passeggero a co-pilota della ricerca terapeutica? Questa figura ha la potenzialità di acquisire nei prossimi anni una rilevanza pari a quella dell’operatore sanitario, in grado di operare sia come soggetto attivo, responsabile di ricerca in gruppi o network di pazienti, sia come consulente della ricerca industriale o accademica per fornire pareri o consigli.

[1]Graffigna, G., Barello, S., Bonanomi, A., & Lozza, E. (2015). Measuring patient engagement: development and psychometric properties of the Patient Health Engagement (PHE) scale. Frontiers in psychology6, 274.; Graffigna, G., & Barello, S. (2018). Engagement: un nuovo modello di partecipazione in sanità. PENSIERO SCIENTIFICO EDITORE. L’utilizzo del modello è solo su base di licenza (contatto: guendalina.graffigna@unicatt.it)