COVID-19, uno storytelling di qualità per aiutare gli attori dell’healthcare

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Nei mesi appena passati, l’informazione sulla pandemia è stata la protagonista indiscussa su tutti i media, mettendo alla prova la nostra capacità di verificare la veridicità delle fonti e dei contenuti. Quale impatto ha avuto questo surplus mediatico per chi, come un paziente, si trova a fare i conti tutti i giorni con il tema della propria salute? Capire come cambia la propria convivenza con la malattia nella pratica quotidiana, come cambiano le possibilità di essere assistiti, quali protocolli di sicurezza vengono garantiti per chi fa parte di un programma di supporto è stato un tema di primaria importanza nella comunicazione operata dai provider del mondo healthcare.

In che modo si può realizzare una comunicazione che va oltre l’informazione? Raccontando delle storie che permettano la condivisione delle esperienze.

Le storie possono puntare la lente sui diversi attori, possono servire per dare un esempio di come una situazione così peculiare come quella appena passata abbia avuto risvolti positivi e negativi, proprio come ogni altro avvenimento. E per i provider di programmi di supporto, quali sono le storie che possono permettere la condivisione? Sono quelle di chi ogni giorno rimane accanto ai pazienti e continua la sua attività di infermiere, medico, psicologo, nutrizionista o fisioterapista. Queste storie racchiudono anche le paure di chi, tutti i giorni, è costretto a modificare il proprio ruolo attivo alla luce dei nuovi rischi che correrà nel proprio percorso terapeutico.

Spiegare le difficoltà e mostrare le preoccupazioni di pazienti e operatori della salute, fare emergere attraverso queste storie condotte virtuose, risaltare l’impegno per garantire la sicurezza di tutti coloro che sono coinvolti in una relazione, è un impegno, ma anche un’opportunità per il mondo healthcare.

Coronavirus, uno storytelling italiano

 Dopo la Cina, l’Italia è stato uno dei primi Paesi a dover prendere delle misure restrittive per arginare la diffusione del COVID-19 sul territorio nazionale. La salute è il tema più importante che riguarda le vite di tutti, e allora dove documentarsi? Che cosa cercare?

Da qui la scelta operata da molti professionisti della salute di sfruttare i canali social per veicolare le proprie narrazioni individuali e per cercare di rispondere agli interrogativi delle persone prima che queste rischiassero di trovare in rete soluzioni false o fuorvianti.

Accanto alle necessità informative di pazienti e caregivers, di fondamentale importanza è stata anche la narrazione funzionale a condividere esperienze tra gli operatori del mondo healthcare. Quando improvvisamente le prassi di supporto si sono dovute adattare alle normative contro la diffusione del COVID-19 e ai contatti diretti con i pazienti si sono sostituiti meccanismi di distanziamento sociale, tutto si è fatto più confuso e ha richiesto un adattamento che è stato spiegato non solo tramite circolari, ma anche con il racconto.

Gli operatori di HNP si raccontano

Cosa significa essere un infermiere che si occupa di terapia domiciliare ai tempi del Coronavirus? In che modo si può continuare il proprio lavoro di psicologo o psicoterapeuta a distanza?

Come si possono adattare sedute fisioterapiche e nutrizionali nel rispetto dei nuovi standard di sicurezza? Come si gestisce il contatto con i propri pazienti quando viene richiesto di mantenere una distanza di sicurezza? Quando un operatore sanitario può, per il suo ruolo, diventare una figura di cui avere paura perché supporta tanti pazienti e quindi può diventare veicolo del virus?

Lo si può fare con una corretta informazione ai pazienti, una corretta formazione agli stessi operatori, ma anche chiedendo a questi ultimi di raccontare cosa stanno vivendo, per capire come agire e migliorare il supporto.

HNP ha sviluppato un progetto di storytelling per raccontare, in primis a tutti i suoi operatori e di conseguenza anche a tutti i suoi interlocutori, cosa ha significato continuare a prendersi cura dei pazienti proprio attraverso il racconto di chi non ha mai smesso di occuparsi di Patient Support Programs.

Grazie ai racconti di Valentina, Anisoara, Sarah, Gaia, Alessio, Orazio, Roberta, Davide, Alessandro, Fausto, Francesca, Alfonsina e Giulia – che sono solo alcuni degli infermieri, fisioterapisti e psicologi che compongono la rete HNP – Healthcare Network Partners ha costruito un quadro più che mai realistico e concreto di quello che è stato fatto per garantire la continuità di supporto e trattamento nella sicurezza di pazienti e operatori.

 

 

 

 

 

Il supporto nutrizionale a distanza

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La situazione emergenziale causata dal Covid-19 ha aperto ai Biologi Nutrizionisti la possibilità di effettuare le consulenze da remoto ed elaborare diete online, fornendo assistenza anche da distanza.

Essere guidati dal punto di vista alimentare – quindi di salute – in un momento così difficile sotto numerosi aspetti, è stato molto utile per raggiungere gli obiettivi prefissati, evitando che fattori quali pigrizia, disinteresse e poca cura verso sé stessi prendessero il sopravvento.

Il risultato di questa apertura? Notevoli miglioramenti all’interno dei propri nuclei famigliari grazie a nuove e fondamentali abitudini alimentari.

Come influisce la distanza quando si parla di nutrizione all’interno di un PSP?

La creazione di un regime alimentare deve rispettare la personalizzazione, ma allo stesso tempo deve tenere conto della necessità di creare un supporto in grado di rispondere a un approccio valido per tutti i suoi utilizzatori.

Attraverso la componente nutrizionale, il PSP può rispondere alla necessità dei pazienti di adeguare e perfezionare il proprio modo di alimentarsi anche da remoto, migliorando l’aderenza alla terapia.

Tra i principali obiettivi del supporto nutrizionale c’è la modifica delle abitudini alimentari non corrette indirizzando il paziente verso una corrispondenza con le linee guida previste per la patologia in questione.

Gli strumenti messi in campo possono variare a seconda degli obiettivi, ma alcuni di questi si dimostrano versatili: realizzare un materiale formativo che riesca a fare chiarezza sulle scelte alimentari inappropriate può costituire un buon punto di partenza.

I cambiamenti vanno successivamente messi in pratica, come?

Ad esempio attraverso la compilazione di un diario alimentare appositamente studiato, in formato digitale o cartaceo a seconda del tipo di paziente, che possa funzionare da auto-check permettendo quindi al paziente di prendere coscienza delle proprie abitudini non corrette che andranno trasformate in un atteggiamento alimentare positivo in grado di supportare e migliorare la propria condizione fisica.

Nella trasformazione delle proprie abitudini diventa fondamentale studiare, creare e assegnare degli obiettivi settimanali o mensili che devono essere successivamente verificati dal professionista stesso o da personale appositamente formato. La scelta dei mezzi per gestire un percorso a obiettivi è ricca: in questi mesi i canali più utilizzati sono stati principalmente quelli tramite voce e video. Quest’ultimo consente, in mancanza di un rapporto frontale, di stabilire un contatto empatico, aspetto che può incentivare il paziente a farsi guidare attraverso l’instaurazione di un rapporto di fiducia.

Il monitoraggio passa anche dalla determinazione delle misure antropometriche come l’altezza, il peso e le circonferenze. Infografiche, video tutorial che spieghino come effettuare le rilevazioni permette la gestione a distanza di una pratica che potrebbe rivelarsi motivo di sconforto, disagio e difficoltà pratica.

Le combinazioni di strumenti e tecniche a distanza viene studiata volta per volta a seconda delle caratteristiche del supporto richiesto tenendo sempre presente un obiettivo: offrire un sostegno efficace nella gestione della patologia.

Uno sportello di supporto per gli infermieri durante l’emergenza COVID-19

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In questo periodo di emergenza sanitaria, l’assistenza domiciliare è stata estesa oltre la prassi e i protocolli standard al fine di mantenere quanto più possibile i pazienti presso il proprio domicilio, evitando trasferimenti presso le strutture sanitarie che li esporrebbero a rischi non necessari. Ciò ha significato un grande sforzo in più per gli infermieri che operano nell’assistenza domiciliare, aumentandone sensibilmente la mole di lavoro e l’intensità delle prestazioni.

I protocolli aggiuntivi, l’utilizzo esteso dei dispositivi di protezione individuale, le procedure di igienizzazione e l’ingresso di nuovi pazienti nei PSP hanno sollevato dubbi e paure aumentando i livelli di stress negli operatori, peraltro già soggetti al timore di contrarre l’infezione e di trasmetterla ai propri familiari o alla sofferenza per la perdita di pazienti e colleghi.

Inoltre, la preoccupazione del contagio porta talvolta l’operatore sanitario a un vero e proprio auto-isolamento: aumenta il carico di lavoro, si limita la possibilità di confronto con i colleghi e i nuovi protocolli modificano sensibilmente il rapporto con i pazienti.

Con le condizioni lavorative, sociali e familiari mutate in maniera tanto repentina, è quindi frequente che emozioni quali rabbia, senso di impotenza, paura e frustrazione diventino presenze costanti e talvolta invalidanti per l’operatore sanitario, che può manifestare anche sintomi depressivi e prolungati stati d’ansia capaci di sfociare in insonnia persistente, somatizzazioni e in un aumentato consumo di tabacco e caffeina.

A fronte di questi possibili scenari, evidenziati anche dall’Istituto Superiore di Sanità, HNP ha tempestivamente attivato uno sportello di ascolto allo scopo di creare uno spazio di sostegno e supporto telefonico dedicato ai propri infermieri.

Lo sportello, grazie allo strumento delle videochiamate, si è potuto attivare molto rapidamente, consentendo anche la massima flessibilità nei confronti delle esigenze turnistiche degli infermieri.

Gli operatori possono quindi beneficiare di un sostegno psicologico mirato il cui obiettivo principale è quello di riconoscere il disagio e identificarne le cause dettate dalla straordinarietà della pandemia e di offrire, dove necessario, anche alcuni strumenti pratici per affrontare i momenti più difficili.

Oltre alle condivisioni personali, allo sportello si ricevono interrogativi specifici sulla sfera professionale nati in seguito alla ristrutturazione del lavoro.

“Come posso muovermi a casa di una persona che ha paura di farmi entrare? Come posso rassicurarla?

“Cosa posso dire al bambino a cui somministro la terapia che, in questo momento, non mi può salutare come al solito?”

Pur non esistendo una risposta univoca e universale a queste domande, grazie allo sportello è possibile trovare una risposta con la collaborazione dell’operatore stesso, analizzando le sue esigenze specifiche e le condizioni ambientali, diverse caso per caso, che si trova ad affrontare nell’esercizio della professione.

Sapere quando rassicurare il paziente, quando fornire spiegazioni e informazioni aggiuntive oppure quando aiutarlo con un semplice esame di realtà e quando invece rimanere empaticamente in ascolto, sono elementi psicologici di base a cui gli operatori possono ricorrere per continuare a offrire un’assistenza efficace in un momento eccezionale dove i pazienti e il sistema sanitario richiedono un livello superiore di cura e attenzione.

Ancora una volta la risposta migliore è stata quindi quella legata a un approccio di tipo multi-disciplinare e di lavoro “di squadra”, dove la capacità degli operatori in prima linea di leggere le nuove esigenze, proprie e del paziente, hanno trovato risposta in un supporto dedicato che condivide gli stessi obiettivi: continuare a fornire ai pazienti e ai caregiver gli standard di assistenza a cui sono abituati e aiutare gli operatori a costruire, caso per caso, le nuove condizioni con cui poter svolgere al meglio e serenamente il proprio lavoro.

Studiare il corretto protocollo di supporto nutrizionale: un processo per fasi

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Il sesso, l’età, le condizioni patologiche, l’attività fisica, le ore e la qualità del sonno, i farmaci,  le integrazioni, la digestione, la diuresi, la funzionalità intestinale continuando con la sete, il mal di testa, le allergie, le reattività alimentari, la forma del corpo, la regolarità del ciclo mestruale e i disturbi ginecologici, così come le manifestazioni cutanee, le appetenze, le alterazioni dell’umore, la predisposizione e le motivazioni a cambiare le abitudini alimentari e quelle quotidiane: l’elenco delle caratteristiche che rendono una persona unica potrebbero continuare. Siamo tutti meravigliosamente diversi.

L’individualità e la peculiarità di ognuno deve essere quindi approfondita, accolta e studiata per costruire un piano alimentare che calzi a pennello.

Viene da sé che farsi prestare la dieta dall’amica che è stata da un nutrizionista non è cosa buona e giusta, così come seguire regimi alimentari letti su un giornale non è un modo saggio per prendersi cura di sé.

Ognuno di noi ha diritto ad un piano alimentare ad personam, preciso ed unico che possa sostenere, riparare e riequilibrare il corpo.

Il colloquio con il paziente che necessita di un piano alimentare dovrebbe richiedere il tempo necessario per avere un inquadramento della persona che sia il più ricco e dettagliato possibile e che permetta di guidarlo verso scelte alimentari che siano appropriate a uno stato dinamico e di cambiamento.

Siamo dunque in continuo mutamento e quando introduciamo un alimento c’è un’interazione cibo- corpo; l’effetto di questa dipende da due fattori: le caratteristiche chimiche e le proprietà nutrizionali dell’alimento (vitamine, minerali, carboidrati, grassi, proteine, fibre) ma soprattutto lo stato in cui si trova l’organismo in quel momento – come sta funzionando l’intestino, lo stato infiammatorio silente, la capacità digestiva, la condizione emotiva.

Questi intrecci vanno osservati e studiati: è questo il frutto del lavoro che nasce dall’interazione diretta tra nutrizionista e paziente.

E quando il supporto nutrizionale diventa una componente offerta da un PSP? Il confronto diretto nutrizionista- paziente lascia spazio ad una personalizzazione per step codificati.

Il paradigma cambia: si parte dallo studio e dalla raccolta delle linee guida previste per ogni particolare condizione patologica. Questo risulta il primo passo per studiare un percorso nutrizionale che possa accompagnare il paziente nell’acquisizione di nuovi e corretti stili alimentari.

Risulta fondamentale segmentare la popolazione d’interesse per creare gruppi omogenei (sulla base di fattori quali comportamenti, caratteristiche fisiche e attitudini alimentari). Concentrandosi sui singoli personas creati si possono affinare le indicazioni alimentari e renderle più specifiche e di conseguenza più facilmente attuabili.

L’interazione diretta con i pazienti avviene in fase di erogazione del supporto: il colloquio, la raccolta delle difficoltà e dei punti di forza rispetto al percorso alimentare permette di fare sì che le indicazioni alimentari vengano costantemente riviste e migliorate sulla base dell’esperienza del destinatario finale.

Il counselling psicologico ai tempi del Covid-19: strumenti e tecniche per il supporto

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L’emergenza sanitaria dettata dalla pandemia ha portato con sé numerosi stressor (elementi fonte di stress) con effetti ancora più marcati su determinate categorie a rischio.

La necessità di limitare gli spostamenti e il conseguente isolamento all’interno delle mura domestiche, la paura del contagio e la messa in atto dei comportamenti di prevenzione, il distanziamento sociale e più in generale una quotidianità sensibilmente mutata, hanno aumentato la pressione psicologica su tutta la popolazione e, in misura rilevante, sui pazienti con malattie croniche e i loro caregiver.

A partire dalla periodica visita di controllo in ospedale con il proprio medico di fiducia fino alla sospensione dei centri diurni, il paziente e i suoi famigliari si trovano ad affrontare un necessario processo di adattamento a cui si contrappongono anche l’invadente sensazione di vulnerabilità verso una malattia che può essere asintomatica e la paura di contrarre il virus e di trasmetterlo ai propri cari.

Si delinea perciò uno scenario ricco di nuove emozioni e di nuovi pensieri per il paziente e il caregiver, che in molti casi sperimentano intensi e prolungati stati d’ansia capaci di sfociare in attacchi di panico, in meccanismi di controllo ossessivi o in eccessive canalizzazioni degli stati emotivi attraverso il cibo.

Nell’ottica di un approccio multidisciplinare, in questa situazione straordinaria, lo psicologo agisce con un duplice ruolo: verso il paziente, offrendo sostegno e supporto psicologico e psicoeducativo e nei confronti della famiglia e della rete di supporto come facilitatore della comunicazione e della relazione.

Gli strumenti validi sempre – in aggiunta al classico supporto di persona – vanno dal sostegno a distanza, il cui obiettivo primario deve essere quello di favorire una migliore regolazione delle emozioni e contenere i vissuti d’ansia e paura specifici di questo momento, all’implementazione delle reti di supporto sociale attraverso la creazione di gruppi virtuali che offrano uno spazio di condivisione e sostengano la condivisione, riducendo l’isolamento sociale.

Per offrire un supporto adeguato al contesto emergenziale, è quindi fondamentale identificare quelle modifiche della routine che provocano disagio e un’alterata sensibilità nei confronti della patologia e dell’ambiente circostante, attivando nuove forme di sostegno che sfruttino metodi e mezzi di comunicazione alternativi.

Un esempio di come il supporto psicologico debba adattarsi alle nuove condizioni imposte dalla pandemia è il caso di Maria*, affetta da patologia cronica, la cui modifica della prassi terapeutica di somministrazione e le necessarie precauzioni aggiuntive adottate dai caregiver hanno portato a un improvviso innalzamento dei livelli d’ansia che ha generato frequenti attacchi di panico.

Nel contesto domestico, e ancora di più oggi in cui tutti si trovano spesso insieme in casa, la privacy può essere molto limitata, per cui con Maria siamo ricorsi a quello che abbiamo chiamato insieme “il bollettino”: un tipo di supporto centrato sul riconoscimento delle emozioni e sulla loro mentalizzazione, effettuato tramite uno scambio di e-mail a cadenza regolare.

Per i momenti più critici abbiamo invece fatto uso di brevi telefonate, che hanno permesso anche l’utilizzo di specifiche tecniche di respirazione e di grounding (radicamento) per affrontare i fenomeni più acuti legati alla gestione dell’ansia.

Fondamentale è stato poi sostenere anche il nucleo familiare nella co-gestione della cronicità, favorendo lo scambio con gli operatori sanitari così da garantire continuità al processo terapeutico-assistenziale e rinforzare le risorse della famiglia e della rete di supporto.

*(nome di fantasia)

La relazione terapeutica ai tempi del Coronavirus: la storia di Alfonsina

Dal 9 marzo le nostre vite sono state stravolte, le nostre certezze minacciate. Un grosso tumulto emotivo ci ha travolti, quasi come se stessimo osservando la nostra vita da una finestra, come se non ci appartenesse… non può essere! Non è possibile!  Il Covid 19 ha stravolto i nostri ritmi biologici e psicologici, le nostre relazioni, si è impadronito della nostra libertà.

Dopotutto, fino all’inizio della pandemia, la città di Wuhan non era altro che una parte di mondo sconosciuta, lontana da noi sia fisicamente che emotivamente.  Si è fatto spazio dentro di noi la consapevolezza che tutto è cambiato in modo dirompente, e dopo un primo momento di incredulità e distacco dalla realtà, la rabbia la paura e lo sgomento hanno scandito il ritmo giornaliero del nostro mondo interiore. Sono cadute le certezze, dando spazio all’amara consapevolezza dell’assenza dell’altro, dei rapporti sociali, di una quotidianità data per scontata ed ora tanto desiderata.

Il nostro lavoro come psicoterapeuti è stato “aggredito” nel suo aspetto fondamentale, il generatore di cambiamento attraverso la certezza dell’esserci… la relazione.

La relazione è fatta dell’incontro nel setting, di dialoghi, d’incroci di sguardi, di vissuti espressi con il linguaggio del corpo, attraverso quei sospiri impercettibili che solo la condivisione dello spazio “terapeuta paziente” mette in comunione e fa cominicare fra loro.

Anche noi psicoterapeuti siamo stati chiamati ad un cambiamento, cambiamento necessario a trasmettere ai nostri pazienti il nostro esserci nelle loro vite. In questa emergenza abbiamo fatto ricorso alla strutturazione di un setting “diverso”, nato nei byte, fatto di clic e di videochiamate. Ci siamo adattati creativamente al nuovo. Nonostante le difficoltà, le sofferrenze, abbiamo colto e rimandato ai nostri pazienti due cose importanti: vivere con la consapevolezza che il Covid 19 è fra di noi, ma nello stesso tempo mantenere viva e pulsante la speranza che genera energia e voglia di far fronte al dolore e alle sofferenze. Il nostro ruolo in questo tempo è stato di accoglienza, condivisione e presenza.

Una paziente, infermiera, ha trovato nei nostri incontri l’unico spazio dove poter dare voce alle sue angosce, alla sue paure. L’ambiente di lavoro si è trasformato in un bacino di emozioni forti, intense e devastati: paragonava l’entrare in reparto come il varcare la trincea in guerra, con un compagno di viaggio costantemente presente, lo spettro della paura della morte. Il solo pensare di poter essere contagiata dal virus la devasta, ed ancor di più la terrorizza l’idea della possibilità che essa stessa possa veicolare il virus della morte ai suoi cari, non riuscirebbe a sopravvivere al senso di colpa.

Il suo ruolo gli impone di dare coraggio, stabilità, mantenere alto il livello di guardia, ma nello stesso tempo trasmettere la speranza che “andrà tutto bene”.

Il supporto emotivo ai tempi del Coronavirus: la storia di Francesca

Covid-19. Emergenza sanitaria. Lockdown.
Sono parole che risuonano nelle nostre case ormai da alcuni mesi e con loro ne sono arrivate altre: paura, dolore, incertezza. Della malattia, della perdita, del futuro.

Ognuno ha il proprio modo di vivere ed esprimere questo momento attraverso emozioni complesse e spesso difficili da gestire e, nel confronto con i miei pazienti e i miei colleghi, ho capito che la parola d’ordine come psicoterapeuti non poteva che essere una: flessibilità.

Flessibilità nel gestire il processo clinico e nell’apertura a nuove forme e mezzi di comunicazione.

Come con Giorgia*, madre single di un giovane con una patologia cronica, che si è rivolta al supporto psicologico per la prima volta perché sopraffatta dall’ansia di essere sola e di dover proteggere il figlio da questo nuovo virus.

Con Giorgia abbiamo iniziato un breve sostegno tramite videochiamata grazie alle quali abbiamo potuto fare anche alcuni esercizi per imparare a gestire i momenti più difficili.

La videochiamata non è un mezzo del tutto nuovo nel supporto psicologico e, in casi come questo, dove il manifestarsi violento e improvviso del disagio è reso più acuto dal confinamento all’interno delle mura domestiche, risulta particolarmente efficace come porta verso l’esterno e come realizzazione della presenza di una rete di supporto su cui contare.

Antonio*, invece, caregiver di professione, teme di portare il virus a casa dai suoi cari e ai suoi pazienti. L’idea di questo rischio in poco tempo è passata da semplice timore passeggero a una vera e propria paura che gli rende complesso svolgere il suo lavoro con la necessaria calma e serenità.

Per lui e per tutti i suoi colleghi, impegnati in prima linea, è stato aperto immediatamente uno sportello di ascolto, per garantire un luogo sicuro e protetto in cui poter condividere queste emozioni.

In questo momento il primo obiettivo che ci poniamo come psicoterapeuti è soprattutto quello di permettere alle persone che necessitano di supporto di prendere coscienza della natura dell’emergenza e di riconoscere che si tratta di una straordinaria esperienza collettiva in cui siamo tutti coinvolti senza eccezioni.

È fondamentale quindi comprendere che non siamo soli nella paura, nel dolore e nell’incertezza e che esiste una rete di supporto capace di aiutare a comprendere e abbracciare le nuove emozioni e andare oltre grazie alle proprie risorse personali.
Per fare questo, in un momento in cui le relazioni e la comunicazione tra le persone sono profondamente intaccate dalle misure di contenimento, la flessibilità nell’approccio è la chiave per offrire il miglior supporto possibile.

* (nomi di fantasia)

 

Essere un fisioterapista domiciliare ai tempi del Coronavirus: la storia di Fausto

Ho capito con pienezza l’importanza del nostro lavoro di fisioterapisti domiciliari ancor di più in questi tragici giorni che stiamo vivendo per questa pandemia dovuta al Covid-19.

Attraversando città e paesi vuoti, mentre mi dirigo dai miei pazienti, percepisco la solitudine che poi ritrovo dentro quasi tutte le case. Il mio lavoro è diventato un punto di riferimento terapeutico non solo per il corpo, ma anche per lo spirito del paziente.

Noi fisioterapisti domiciliari abbiamo dovuto imparare a lavorare in maniera diversa, seguendo tutte le precauzioni necessarie riguardo l’utilizzo dei DPI, per la nostra protezione e sicurezza e per quella dei nostri pazienti.

Entrando nelle loro abitazioni dobbiamo vincere il timore d’incontrare contagiati e, cosa più importante, dobbiamo trasmettere alle persone che ci aprono la loro casa la sicurezza di cui hanno bisogno. Apriamo le imposte per fare entrare aria pulita, con cortesia invitiamo i parenti a tenere la dovuta distanza e a mettere la mascherina nel rispetto del protocollo previsto.

Fare fisioterapia in questo momento è complesso: il paziente è preoccupato di svolgere una terapia che richiede la manipolazione degli arti, spesso dolorosa e che si basa sul contatto. Quel contatto è un grande gesto di fiducia di entrambe le parti: dei miei pazienti e anche mia.

Il ruolo di noi operatori domiciliari d’altronde è fortemente basato sulla fiducia: il fisioterapista rappresenta il cordone ombelicale che lega il  paziente alla guarigione, per questo soprattutto in tempi complessi come questi, il nostro compito è quello di assistere con professionalità e massima sicurezza.

Ormai da tempo sono entrato nelle vite dei miei pazienti e spero tanto di poterli aiutare a preservarsi da questa pandemia.

Con umiltà e spirito di sacrificio continuo il mio lavoro quotidiano, augurando per me e i miei pazienti che quanto prima si ritorni alle normali abitudini.

 

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Alessandro

Nonostante l’infermiere domiciliare non sia in prima linea (tra i reparti di malattie infettive e  terapie intensive) nella “lotta al covid”, si trova di fronte a una grande battaglia da combattere: gli spetta il compito di continuare ad assistere sul territorio pazienti ad alta complessità assistenziale – che in questo momento più che mai, mostrano, in aggiunta alle difficoltà gestionali e alla cronicità della situazione di base, la paura di poter contrarre il virus.

Un virus che, potrebbe determinare esiti infausti per la salute di questi pazienti che si trovano in una condizione di base già precaria.

In questo momento i contatti all’interno di situazioni ospedaliere o ambulatoriali sono fortemente limitati e sconsigliati, di conseguenza l’infermiere domiciliare diventa ancora di più il punto di riferimento per coloro ai quali è garantita questo tipo di assistenza.

L’infermiere domiciliare si occupa perciò, oltre che dell’assistenza infermieristica di base, di supportare psicologicamente pazienti e familiari e di promuovere un’azione informativa e formativa, che miri alla sensibilizzazione delle pratiche alle quali attenersi perla prevenzione ed il controllo dell’infezione da Covid-19.

Tra i vari aspetti trattati nell’azione informativa, di fondamentale importanza risulta la parte relativa l’utilizzo dei DPI (dispositivi di protezione individuale) quali mascherine chirurgiche, che devono necessariamente essere utilizzate dal personale infermieristico che si reca a domicilio, ma anche dal paziente e dai caregivers; al fine da promuovere un’azione di protezione bidirezionale.

Spesso l’infermiere domiciliare si trova a fronteggiare situazioni in cui i propri utenti sono spaventati e hanno paura che chi eroga l’assistenza a domicilio possa essere vettore per la trasmissione del virus, essendo lo stesso a contatto con numerosi pazienti e rispettive famiglie.

Anche in queste situazioni, per quanto spiacevoli, il ruolo dell’infermiere è quello di tranquillizzare il paziente con professionalità e illustrare le misure di prevenzione che vengono attuate con e per ogni paziente; al fine di evitare la possibilità che i pazienti o i loro familiari rifiutino l’assistenza, con importanti ripercussioni sullo stato di salute del singolo e su tutto il sistema sanitario.

Questa emergenza sanitaria sta determinando una forte prova per la sanità pubblica e per chi ha scelto di prestarvi servizio.

Le azioni svolte da tutto il personale medico e infermieristico arricchiranno il bagaglio esperienziale di ciascun professionista, che continuerà a metterlo in campo anche quando l’emergenza sarà finita.

Essere un infermiere di home therapy ai tempi del Coronavirus: la storia di Davide

Essere un infermiere domiciliare non significa unicamente assistere una persona in un ambiente esterno a quello ospedaliero: è importante non dimenticare il significato di entrare per necessità nel mondo di qualcuno, nella sua vita, nei suoi spazi, essere parte di un universo a noi sconosciuto, quello di coloro che devono accoglierci nelle loro abitazioni per ricevere assistenza.

Proprio questa situazione fa sì che ogni passo, ogni parola, ogni azione, debba essere compiuta portando il rispetto necessario a coloro che hanno aperto con fiducia la porta della propria vita a noi estranei, poiché questo siamo inizialmente, divenendo visita dopo visita parte integrante delle vite che assistiamo.

Da quando si è sviluppata la pandemia, causata dal Sars-Cov2, il concetto stesso di assistenza domiciliare è mutato, soprattutto a livello psicologico: per motivi di sicurezza i dpi sono divenuti fondamentali anche per quanto riguarda l’assistito e spetta a noi infermieri far rispettare il protocollo previsto.

Ammetto di non essere a mio agio quando, in casa altrui, chiedo di indossare la mascherina anche a coloro che in quella casa ci vivono, quando chiedo di aprire le finestre per arieggiare l’ambiente e allontano tutti coloro che non sono necessari dalle stanze che ogni giorno li vedono protagonisti, mentre io sono solo una comparsa. Lo faccio per il loro bene e per il mio, a volte non è facile ma risulta palese come l’obiettivo sia la messa in sicurezza di tutti.

In conclusione, voglio ribadire come il concetto di assistenza domiciliare sia delicato, basato su una bilancia i cui piatti necessitano dello stesso peso: il rispetto tra colui che riceve assistenza e la figura professionale che rappresentiamo.

Noi infermieri domiciliari siamo un riferimento, siamo le persone in cui l’assistito e i suoi familiari ripongono la propria fiducia nel seguire le indicazioni che diventano indispensabili per tutta la durata dell’accesso domiciliare.

Non dobbiamo sottovalutare il ruolo che ricopriamo e l’importanza che rivestiamo in quanto sanitari, ma neppure il fatto che entriamo come esterni nelle intimità delle vite degli altri.

Umiltà e competenza, mai come in questo periodo risultano indispensabili.