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IL KNOWLEDGE SHARING NEL LAVORO

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Parlare di knowledge sharing significa parlare di una condivisione che mira ad abbandonare una visione individualista del lavoro ed abbracciarne una più collettiva e solidale. Non basta più avere collegamenti saldi tra i reparti di un’azienda poiché le informazioni devono venire condivise tra i singoli individui. Così facendo, si entra a far parte di un processo che porta l’azienda a crescere e a svilupparsi anche su un piano orizzontale.

Ma cosa si intende con “conoscenza”? 

All’interno di un’organizzazione lavorativa ve ne sono due tipi. La prima, detta esplicita, è costituita da tutte quelle informazioni scritte e consultabili, come le policy aziendali, i contratti, i dettagli sui prodotti e così via. La seconda è invece detta conoscenza implicita  e consiste in tutte quelle informazioni che si apprendono durante il lavoro, spesso maturate in anni di esperienza.

Per fare knowledge sharing va innanzitutto eliminata la convinzione che le informazioni migliori provengano da coloro che ricoprono cariche più alte in azienda: quello che è invece necessario è stimolare la condivisione ad ogni livello dell’organizzazione, indipendentemente dalla posizione gerarchica degli individui. 

I risultati di questo case study mostrano come una buona condivisione della conoscenza tra le persone che collaborano ad uno stesso progetto porta ad un’efficienza maggiorata. Attraverso l’utilizzo di una piattaforma mirata all’ottimizzazione delle prestazioni operative, si è ridotto considerevolmente il numero di email, chiamate e riunioni, facilitando così la collaborazione tra diverse regioni e funzioni aziendali. Questi miglioramenti di produttività hanno aumentato la motivazione attraverso l’instaurazione di un obiettivo comune all’intera organizzazione.

Vantaggi

I peggiori nemici del knowledge management sono il tempo impiegato per l’accesso alle informazioni e la scarsa volontà di chi deve fruirne; parliamo quindi dell’impatto che una buona gestione delle informazioni comporta sul lavoro.

Quali sono i vantaggi del knowledge sharing? Come affrontato in questo interessante studio dal titolo KNOWLEDGE SHARING TOOLS AND KNOWLEDGE TRANSFER: A MEDIATING ROLE OF MOTIVATION, la condivisione porta beneficio a tutti: i dipendenti, lavorando con le conoscenze e il supporto degli altri, saranno più produttivi e valorizzati. Il dialogo, la formazione e lo scambio, portano ad una procedura lavorativa più proficua e stimolante, che non risente della paura dei singoli di essere espropriati delle proprie conoscenze e capacità. Tale processo porta a un aumento dello spirito di appartenenza all’organizzazione, al livello di motivazione e coinvolgimento, alla fiducia reciproca e alla collaborazione. Vi è inoltre un fattore emotivo che riguarda gli individui, i quali, quando sentono di far parte di una realtà che investe su di loro, non solo lavorano meglio e più serenamente, ma non rischiano di ostacolarsi l’un l’altro mantenendo ognuno una prassi lavorativa differente. 

I due approcci al knowledge management

La condivisione della conoscenza, dunque, può facilitare e valorizzare molteplici processi, quali l’onboarding, l’integrazione tra aree, l’innovazione, ma anche il benessere delle persone, favorendo un ambiente che privilegia lo scambio, la curiosità e il confronto continuo. Per questi motivi, le modalità con cui condividere conoscenze nelle organizzazioni sono da diversi anni al centro di molti studi e diversi approcci. 

Il dibattito sul knowledge management è sicuramente molto acceso e le varie definizioni di conoscenza aiutano a proporre differenti impostazioni sul come affrontare un progetto di questo tipo. 

La conoscenza viene intesa da alcuni come una risorsa “cristallizzata”, un oggetto sfruttabile e riutilizzabile. Diversamente, altri approcci ne individuano le particolarità nell’aspetto sociale: la conoscenza dunque nascerebbe e si modificherebbe continuamente attraverso le pratiche sociali di una comunità lavorativa, per cui “soggetto ed oggetto di conoscenza si definiscono (e si costruiscono) a vicenda” (Gherardi, 2003).

Se prevale il primo approccio, la soluzione di un progetto di KM può essere ricondotta ad una banca dati che gestisca procedure e manuali, i quali favoriscono la “cristallizzazione” della conoscenza e diventano i contenitori dell’apprendimento.

Il knowledge management in HNP

Crediamo che, attraverso un’operazione di sintesi, si possa integrare il primo approccio al secondo. E’ dunque necessario capire come gestire un processo organizzativo e al contempo interrogarsi su quale contesto organizzativo favorisca l’apprendimento. 

Rendere operativo il valore della condivisione per un provider di servizi per la salute è un compito importante; con la continua crescita dell’organizzazione, la sfida che intendiamo intraprendere è quella di favorire un ambiente curioso, che fa della condivisione della conoscenza un elemento fondamentale per la collettività e per le singole persone.

Gli obiettivi su cui stiamo lavorando sono:

  • La creazione di luoghi dove sedimentare le conoscenze sviluppate in questi anni. Abbiamo avviato un progetto che mira a raccogliere e organizzare il materiale formativo a supporto dei PSP, che risulta un’importante fonte conoscitiva riguardante le patologie rare e croniche, le pratiche di assistenza domiciliare e gli strumenti di ascolto e supporto ai pazienti. 
  • Sostenere le diverse comunità di pratiche che custodiscono i saperi esperti nella nostra organizzazione (l’area medica e quella infermieristica, quella gestionale, la farmacovigilanza ecc.). Per questo vogliamo dedicare del tempo alla condivisione per creare occasioni di networking formale e informale, fornendo spazi adibiti alla condivisione e alla trasmissione della conoscenza (un primo esempio è stata l’esperienza avviata con HR Radical intorno al tema degli obiettivi, ai team interfunzionali avviati, ecc.).
  • Promuovere una cultura orientata alla curiosità e alla diversità, con persone tolleranti delle idee altrui e amanti del sapere (su questa tematica si muove il progetto DEI)
  • Rafforzare la capacità di networking e knotworking (Engeström, 1999), ovvero  riuscire a tessere relazioni e generare nodi, alleanze, che si sviluppino sia dentro che fuori l’organizzazione. 

PSP E DESIGN SOVRANAZIONALE

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Il numero crescente, negli ultimi 10 anni, di pubblicazioni e studi osservazionali relativi ai PSP in Europa mostra la rilevanza del loro impatto sull’assistenza sanitaria. Tuttavia, come dimostrato dalla letteratura di settore, per raggiungere il pieno potenziale, occorre sviluppare linee guida e raccomandazioni che armonizzino a livello europeo la definizione di PSP, standardizzandone i metodi, misurando sistematicamente il loro impatto e sviluppando tecnologie digitali e modelli assistenziali che possano integrarsi con l’offerta di ogni singola nazione.

Le sfide della glocalizzazione

Ogni PSP ha sfide uniche e richiede una progettazione targettizzata su obiettivi, destinatari e paesi. Non esiste un metodo plug-and-play replicabile tra territori differenti, anche se è possibile definire un set-up di componenti standardizzate con la possibilità di avere adattamenti dell’ultimo miglio differenziando per paese. Nella relazione pharma-provider diventa pertanto cruciale creare valore per tutti gli stakeholders del PSP, monitorare e analizzare i servizi e i prodotti erogati tramite un approccio data-driven, ottimizzare l’applicazione di norme e GDPR in materia di trattamento di dati personali e privacy.

Il ritorno economico

Le aziende healthcare oggi sono chiamate a sviluppare cure e servizi che accompagnino le persone affette da malattie rare, croniche o degenerative (e i loro caregiver) lungo tutto lo stay in therapy. Il PSP rappresenta il modello che può soddisfare questo connubio terapie-servizi garantendo la sicurezza del paziente e la farmacovigilanza tramite il monitoraggio di tutti gli effetti collaterali potenzialmente gravi; una migliore gestione della malattia, specialmente nelle condizioni di cronicità e di monitoraggio nel lungo periodo; una maggiore efficacia del trattamento.

In un documento informativo del 2018 elaborato dalla Confederazione NHS, che sostiene e parla del sistema sanitario in Inghilterra, Galles e Irlanda del nord, è stato stimato che nel Regno Unito sono oltre 15 milioni i pazienti con patologie long-term la cui assistenza rappresenta il più grande consumo di risorse del SSN con una media del 55% degli appuntamenti fissati con il medico di base, il 68% degli appuntamenti ambulatoriali e di pronto soccorso e il 77% dei giorni di degenza. Migliorare l’assistenza dei pazienti cronici è dunque l’obiettivo per gestire al meglio i budget sanitari. La progettazione di PSP efficaci che puntino alla gestione assistenziale e digitale, vicina al paziente, rappresenta la soluzione a questa sfida.

Digital support e home therapy

Uno studio condotto da Rock Health Advisory, acceleratore di innovazione sanitaria digitale, relativo alla crescita di investimenti e startup digital health ha mostrato come l’interesse degli investitori nella salute digitale gestita a distanza, tramite piattaforme mHealth, abbia prodotto solo nel 2017 un giro d’affari di 6 miliardi di dollari. Le tecnologie digitali richiedono certamente attenzione sia dal punto di vista della struttura del servizio fornito – per assicurare che vi siano funzionalità idonee a garantire il rispetto di obblighi come quello della Pharmacovigilance – sia sotto l’aspetto della tutela dei dati personali, ma aprono nuovi scenari di personalizzazione del PSP e di snellimento delle procedure a livello multipaese. Tramite le innovazioni tecnologiche e le soluzioni software è infatti possibile dematerializzare il patient journey ed efficientare tutto il processo di cura e l’attività delle figure coinvolte: dal paziente al medico fino agli operatori sanitari. Nel caso, invece, dell’applicazione del supporto di tipo assistenziale, come l’home therapy, è necessario disporre di una conoscenza e un assetto che, oltre a integrarsi con l’offerta di ogni singola realtà nazionale, rispetti procedure e regolamenti previsti dagli enti sovranazionali preposti come per esempio l’European Medicines Agency (EMA), il Committee for Advanced Therapies (CAT), il Committee for Medicinal Products for Human Use (CHMP).

ASSISTENZA TERRITORIALE: CURE DOMICILIARI E INFERMIERE DI COMUNITÁ

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A fornire una panoramica sui nuovi modelli organizzativi e sugli standard per lo sviluppo dell’assistenza sanitaria – come già descritto in un nostro precedente articolo – è il nuovo quadro normativo rappresentato dal Decreto Ministeriale 77 del 2022 e dai Contratti istituzionali di sviluppo (CIS). Tali norme e contratti hanno reso attuativi parte degli obiettivi inclusi nella Missione 6 Salute del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), approvato nel 2021 con uno stanziamento di 20,2 miliardi di euro. Obiettivo condiviso di tale scenario normativo è l’allineamento dei servizi ai bisogni di cura dei pazienti, l’equità di accesso e il rafforzamento della prevenzione e dei servizi sul territorio con estensione a ogni area del Paese.

La casa come primo luogo di cura

Il tema della casa come primo luogo di cura emerge dall’agenda di riforme del PNRR. Il Piano ha infatti previsto un investimento di 2,7 miliardi per il potenziamento dell’assistenza domiciliare. La finalità è aumentare il volume delle prestazioni fino a prendere in carico, entro la metà del 2026, almeno il 10% della popolazione di età superiore ai 65 anni (in linea con le migliori prassi europee), rispetto all’attuale media italiana di poco superiore al 6% (Istat 2021). Oltre al PNRR e al DM 77/2022, il 21 marzo 2023 il Parlamento ha inoltre approvato definitivamente la legge delega in materia di politiche in favore delle persone anziane contenente la riforma della non autosufficienza. In tema di domiciliarità la legge punta anzitutto all’unitarietà delle risposte, attraverso l’integrazione dei servizi domiciliari erogati dalle Asl, tramite l’Assistenza Domiciliare Integrata (ADI), e dai Comuni, tramite il Servizio di Assistenza Domiciliare (SAD). Parallelamente, la legge promuove la razionalizzazione dell’offerta di prestazioni socio-sanitarie tenendo conto delle condizioni dell’assistito, nonché la previsione di interventi di durata e intensità adeguate alle condizioni di salute della persona.

Il ruolo dell’infermiere di famiglia e di comunità

Un ruolo di rilievo nel processo di implementazione dell’assistenza territoriale e domiciliare è ricoperto dall’infermiere di famiglia e comunità (IFeC). Secondo Barbara Mangiacavalli, Presidente Federazione Nazionale Ordini Professioni Infermieristiche (Fnopi), lo standard stabilito è di un infermiere ogni 30mila abitanti e il fabbisogno complessivo è di circa 20mila infermieri di famiglia e comunità e di altrettanti 20mila per i vari nuovi servizi sul territorio. Questa presenza capillare consentirebbe un miglior monitoraggio dello stato di salute della popolazione, con ricadute in termini di prevenzione degli eventi acuti, razionalizzazione delle ospedalizzazioni, aumento della qualità di vita dei cittadini e ottimizzazione delle risorse impiegate. L’IFeC, infatti, operando su diversi livelli di complessità e in collaborazione con tutti i professionisti della comunità, monitora l’aderenza terapeutica, l’empowerment e valuta i sistemi di telemonitoraggio, ed è colui che attiva consulenze infermieristiche, si occupa della formazione dei caregiver e delle persone di riferimento. Collabora, inoltre, alla realizzazione della continuità ospedale-territorio, contribuendo alla definizione di protocolli, procedure, percorsi e al supporto tecnico-professionale ai gruppi di auto mutuo aiuto.

Come vincere le sfide future: l’azione sinergica fra servizio sanitario e provider 

Nel contesto delineato tre sono le grandi sfide a cui la domiciliarità è chiamata a rispondere perché la casa diventi realmente il primo luogo di cura: l’estensione dell’assistenza, il superamento dell’approccio prestazionale, l’introduzione di modelli di servizio innovativi. Le cure domiciliari dovranno raggiungere un maggior numero di utenti, con un’intensificazione delle visite e della durata media di presa in carico. Occorrerà puntare ad un approccio care multidimensionale, basato su uno sguardo complessivo della condizione della persona e dei suoi molteplici fattori di fragilità (Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza, 2021). E, infine, sarà necessario proporre soluzioni innovative, ad alta integrazione, tecnologicamente avanzate, con monitoraggio clinico e ambientale diffuso e continuativo. Si tratta di sfide di ampia portata che non possono che essere affrontate tramite modelli organizzativi integrati in cui pubblico e privato co-progettano e co-erogano i servizi. Soltanto tramite l’azione sinergica fra SSN e operatori privati sarà possibile ridisegnare i flussi di cure domiciliari e le modalità di erogazione, adattandoli alle reali esigenze dei pazienti, anche grazie al supporto di strumenti tecnologici innovativi. Un percorso ambizioso per sfide ambiziose: la costruzione di modelli integrati e multifattoriali di assistenza a domicilio, in grado di  garantire continuità assistenziale, cure multidisciplinari e supporto all’autogestione.