Gli influencer sempre più health

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Nano, Health, Micro. La figura dell’influencer si sta  diversificando e connotando sempre di più. Anche nel settore sanitario stanno cominciando a emergere questi catalizzatori di attenzione un tempo sfruttati soprattutto nei settori B2C

Esplorare le possibilità legate alla costruzione di campagne di comunicazione sfruttando la figura degli influencer è un passo importante anche per il settore healthcare.

Secondo quanto riportato da un sondaggio del 2018, infatti, il 78% delle aziende si rivolge a questa figura per completare la propria strategia di comunicazione.

E se l’obiettivo non fosse vendere una borsa griffata, ma sensibilizzare su tematiche legate all’importanza dell’aderenza terapeutica o di un’alimentazione sana? Le nuove figure di professionisti che sul web sfruttano i social network per divulgare informazione a un pubblico sempre più ampio stanno aumentando.

Grazie al contributo di Biagio Oppi, delegato Emilia-Romagna per Ferpi e professore di Comunicazione d’Impresa all’Università di Bologna, cercheremo di scoprire in che modo questi “catalizzatori di attenzione” e influenzatori di pubblici sempre più specifici possono essere utilizzati per aumentare l’awareness del paziente e per incitarlo a condurre stili di vita corretti.

Da anni ormai si sente parlare della figura dell’influencer nelle campagne di comunicazione. A chi ci si riferisce, che caratteristiche dovrebbe rispettare?

Le Relazioni Pubbliche hanno teorizzato lungo tutto il corso del ‘900 il concetto di influenzatore che peraltro esisteva da sempre nelle comunità: nei manuali di relazioni Pubbliche abbiamo studiato come raggiungere gli influenzatori (definiti solitamente opinion leader) che poi avrebbero influenzato (teoria “Two Step Flow of Communication”) le masse o le nicchie di pubblici di nostro interesse. Con la rete e in particolare con i social network, le cose sono cambiate perché i pubblici interagiscono direttamente con gli stessi influencer che quindi hanno una relazione non solo top-down, ma anche di continuo interscambio. Coloro che oggi riescono per autorevolezza e carisma ad emergere e mantenere un ruolo di influenza, sono ancora più rilevanti per le campagne di comunicazione.

I nano influencer, definiti la ‘nuova professione del 2019’, sono diventate le principali figure al centro delle ricerche aziendale per le campagne marketing. Chi sono? Quale è la ragione per cui il marketing ha rivolto il suo interesse verso queste figure?

Il nano influencer è colui che ha un preciso ambito di influenza in una nicchia ben identificabile; probabilmente spesso non è nemmeno conosciuto al di fuori della comunità di interesse di cui è influencer. È molto rilevante (ed interessante quindi per marketing e relazioni pubbliche) perché la sua credibilità è molto elevata e non è basata sulla quantità (banalmente il numero di follower e di interazione con gli stessi) ma sulla qualità (intensità della relazione, livello dei contenuti).

Una curiosità… la prima grande campagna documentata con nano-influencer probabilmente è quella che riguardò i four-minutes men di cui il CPI (il Committee on Public Information) del Governo USA si servì per sostenere le scelte governative a favore della Prima Guerra Mondiale. Si calcola che per convincere gli americani a entrare in guerrra furono coinvolti oltre 75.000 four-minute men, addestrati ad essere estremamente stringati ed essenziali nel fare il loro discorso pro-intervento in cinema, teatri, luoghi pubblici: alcuni calcolano circa 7 milioni e mezzo di “mini-discorsi” che avrebbero coinvolto oltre centinaia di milioni di persone.

Quale è il profilo tipico dell’health influencer?

Un superesperto in grado di parlare con regolarità e competenza di temi sanitari e salute, con una community di follower di nostro interesse. Occorre fare un discorso molto differenziato da Paese a Paese. Ricordo che quando lavorai in Spagna, dal 2015 al 2016, le agenzie di comunicazione e relazioni pubbliche erano in grado di indicarmi almeno una ventina di health influencer molto rilevanti: tanto per capirci persone con pubblici superiori all’audience dei media di settore. In Italia solo da pochissimo si sono affermati alcuni health influencer e pochi sono in grado di raggiungere larghe audience.

Quali sono i principali influencer in questo ambito?

Roberto Burioni in primis, poi Salvo di Grazia (@MedBunker), ma per me sono importanti influencer anche Walter Ricciardi e Mario Melazzini. Tuttavia nell’ambito della salute, conviene davvero identificare le comunità di nostro interesse e quindi ad esempio mi focalizzerei molto sulle associazioni di pazienti e sui profili social che riescono a coagulare attorno a sé gruppi rilevanti di stakeholder nella patologia o sul tema di interesse. È all’interno dei gruppi di pazienti su Facebook che si creano dinamiche di informazione-influenza su temi di salute rilevantissimi; su Instagram oggi viene veicolata un importantissimo numero di informazioni sulla nutrizione – non sempre purtroppo in maniera corretta e responsabile.

Come le aziende farmaceutiche, i caregiver, i fornitori dei servizi per il paziente e i diversi attori del mondo sanitario possono impostare una campagna di comunicazione sfruttando la figura degli influencer?

Per fortuna ci troviamo in un settore fortemente regolato e, almeno in Italia e in Europa, è vietata una comunicazione incontrollata diretta ai pazienti. Gli influencer in sanità devono essere utilizzati per sensibilizzare a stili di vita corretti, per fare awareness sulle patologie e sui sintomi, per migliorare la comprensione di temi generali di interesse come possono essere i vaccini o l’utilizzo degli antibiotici, per dare visibilità a progetti e iniziative di advocacy. La comunicazione rivolta al paziente spetta però alla classe medica nei contesti adeguati. Come aziende dobbiamo impegnarci a restituire autorevolezza e credibilità a scienza e medicina, anche sensibilizzando il pubblico ad un utilizzo consapevole dell’informazione in sanità. In questo senso le aziende, ma anche le associazioni di professionisti della comunicazione, come Ferpi, possono svolgere un ruolo importante.

I nativi digitali e i servizi healthcare

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Come possono i giovani nati con gli smartphone e l’accesso istantaneo alla rete adattare le loro vite frenetiche a un ambiente sanitario fatto di lunghe attese?

L’iter delle numerose telefonate, delle lunghe code per effettuare le prenotazioni, delle liste d’attesa per rivolgersi al proprio medico sono solo alcuni degli elementi che inducono gli under 30 a vivere l’accesso alla sanità con impazienza e insoddisfazione.

A dimostrarlo, infatti, alcuni studi svolti su quelli che vengono definiti i millennials. A differenza di quanto comunemente si può pensare si definiscono tali gli appartenenti alla generazione dei nati tra i primi anni Ottanta e metà degli anni Novanta.

La popolazione che per prima è cresciuta con l’accesso al world wide web, attualmente ha tra i 25 e i 30 anni. Pertanto, una fetta sempre più grande di pazienti e fruitori dei servizi sanitari, presenta le caratteristiche riportate negli studi condotti.

Queste giovani generazioni cercano sempre di più servizi sanitari in grado di soddisfare le loro aspettative in termini di convenienza, efficienza ed efficacia. Richiedono soluzioni che si adattino ai loro ritmi quotidiani e non viceversa.

 

Personalizzare i servizi sulla base di esigenze sempre più smart, fast e digital

 Alcune analisi mostrano che i nativi digitali hanno caratteristiche che li contraddistinguono in modo netto rispetto alle altre generazioni.

Conoscere in maniera approfondita il proprio fruitore per proporgli soluzioni adatte alle sue esigenze prevede un lungo e approfondito lavoro di ricerca. Tramite la User Experience è possibile comprendere i comportamenti degli utenti, gli obiettivi e le loro necessità per progettare servizi e prodotti totalmente centrati su di loro.

Quando si lavora per i millennial, tra i primi aspetti da considerare c’è un certo agio nel raccogliere, curare e condividere dati. Questa fetta di popolazione vive il momento e apprezza l’utilizzo di software, chat e email per pianificare appuntamenti e gestire i propri impegni. Pertanto, i fornitori di servizi sanitari devono superare l’approccio one-size-fits-all alla luce del fatto che i più giovani sono abituati a esperienze sempre più personalizzate che provengono dal mondo del B2C come per esempio quella offerta da Amazon nel mondo dello shopping.

L’approccio sanitario si fa sempre più digitale: come riporta un sondaggio di Accenture infatti, il 51% dei nativi digitali intervistati ha dichiarato di utilizzare un’app mobile o un dispositivo wearable per gestire il proprio stile di vita e più della metà (53%) utilizza assistenti virtuali per monitorare condizioni di salute, farmaci e segni vitali. Pertanto, le relazioni tra medico, paziente, infermieri e associazioni, non possono che essere guardate alla luce di quelle che sono le offerte tecnologiche dell’ultimo decennio.

Come riporta una ricerca presentata nel 2018 dedicata al welfare, un italiano su cinque è pronto ad affermare che in futuro blog, forum e siti internet a cura di professionisti potranno sostituire in buona parte la figura del medico tradizionale. Sempre dai risultati di questa indagine scaturisce che il 66% degli italiani si rivolge al web per cercare informazioni e consigli di autodiagnosi e per capire come affrontare una certa patologia.

Si tratta di un positivo avvicinamento delle persone all’innovazione tecnologica, ma soprattutto all’utilizzo di device e di supporti Internet anche nel mondo sanitario. Tuttavia, il rischio che i pazienti possano incorrere in fake news online è alto, per questo è opportuno che sempre più operatori sanitari e attori del mondo healthcare si attivino per utilizzare la rete in modo professionale aumentando contenuti e supporti di qualità e arginando la disinformazione.

La medicina va in Rete

Sempre più italiani si dicono fiduciosi nei confronti degli effettivi vantaggi che la sanità digitale può apportare. Il 59% di quelli cha hanno partecipato alla ricerca del 2018, dichiara che tra i servizi ritenuti più utili ci sia al primo posto la possibilità di prenotare esami e visite specialistiche online. Per il 48% è fondamentale anche poter consultare referti clinici online e comunicare con il proprio medico direttamente su smartphone e in caso di necessità.

Nonostante sia un esempio tratto dal sistema sanitario svedese, diverso dal quello italiano, la proposta di “Min Doktor” può rappresentare un spunto all’avanguardia da studiare. Si tratta di un centro digitale per l’healthcare che offre visite mediche online che aiutano i pazienti con diagnosi, prescrizioni e referti.

I medici connessi a questo servizio come prima occupazione lavorano negli ospedali e offrono le loro consulenze sulla piattaforma online quando hanno del tempo extra. I pazienti si registrano al sito con il loro BankID e iniziano scegliendo la categoria che rappresenta meglio il loro problema. Ognuna di queste contiene una guida con un numero di domande da compilare circa i sintomi. Per chi vuole c’è la possibilità di allegare anche delle fotografie. Quando “il proprio caso” è completato, viene caricato sul portale e un medico che è online se ne prende carico. Di solito i tempi di attesa possono andare da una mezz’ora a 4 ore e il medico può richiedere un incontro telefonico o video con i pazienti se lo ritiene necessario.

Attualmente questa offerta è attivata solo per chi ha più di 18 anni, ma in Svezia si stanno svolgendo delle ricerche affinché possa essere esteso anche alla fascia più giovane della popolazione dei bambini.

Altro possibile sviluppo dei servizi healthcare riguarda l’utilizzo di contenuti in formato video per avvicinare e coinvolgere i pazienti nei propri processi di cura. I  millennial infatti hanno una probabilità tre volte maggiore rispetto alla generazione precedente di guardare un video sul proprio dispositivo mobile. Offrire loro contenuti audiovisivi personalizzati e interattivi è fondamentale; per questo il mondo sanitario dovrebbe investire nella realizzazione di video tutorial, interviste a esperti o brevi animazioni in grado di aiutare i nativi digitali ad accedere a informazioni di qualità in poco tempo e in un formato facilmente fruibile.

Patient Engagement, essere protagonisti del proprio futuro

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In che misura il paziente si sente coinvolto nel processo di cura? Il supporto che riceve è centrato sui suoi bisogni? La terapia è stata adattata il più possibile alle sue esigenze?

Migliorare la gestione della malattia, aumentare l’aderenza ai trattamenti e i comportamenti preventivi, incrementare la patient satisfaction e ridurre la spesa sanitaria è possibile. La chiave principale per raggiungere questi obiettivi è aumentare il coinvolgimento attivo del paziente nel processo di cura, in modo particolare attraverso il suo ascolto e l’inserimento della sua voce, delle sue idee nell’evoluzione decisionale per la strutturazione dei PSP.

Dagli studi condotti dal neo nato centro di ricerca EngageMinds Hub dell’Università Cattolica, su un campione di 1389 pazienti cronici italiani, 9 su 10 ritengono importante il loro coinvolgimento attivo nel processo di cura, ma solo 4 su 10 si sentono effettivamente coinvolti.

Ma cosa significa davvero Patient Engagement?

Tradotto letteralmente patient engagement vuol dire “coinvolgimento del paziente”. In ambito sanitario la nozione si concentra sul suo coinvolgimento attivo in tutto ciò che riguarda il suo percorso di cura.

La definizione si estende nelle evidenze presentate dal centro di ricerca EngageMinds Hub: “l’engagement rappresenta un processo complesso risultato dalla combinazione di diverse dimensioni e fattori di natura individuale, relazionale, organizzativa, sociale, economica e politica che connotano il contesto di vita della persona. L’engagement è funzione della capacità, della volontà e della scelta graduale delle persone di assumere un ruolo proattivo nella gestione della propria salute”.

Quando un paziente non si sente engaged, cosa succede?

Dal momento in cui un paziente riceve la diagnosi della propria malattia è chiamato a collezionare informazioni, seguire visite, controlli e finisce per subire in modo passivo decisioni che vengono prese per lui. Se questa condizione non muta il paziente rischia di rimanere nella fase in cui, sconvolto dalla sua malattia e condizione di salute, delega tutto al sistema. Fase che, dal PHE model ®[1], viene definita di Blackout. Seguendo questo modello, affinché il paziente possa arrivare a considerarsi di nuovo una persona, è necessario aiutarlo nell’elaborazione e accettazione della malattia, nonché spingerlo ad aumentare le sue conoscenze per fornirgli un’efficace comunicazione con i curanti che gli permetta di tenere sotto controllo la sua storia.

Se il paziente rimane nella fase di Blackout senza progredire nella scala dell’Engagement, le principali conseguenze riguardano un aumento dei costi della sanità, una scarsa aderenza alle terapie nonché un generale peggioramento del suo stile di vita.

 Da disease centred model a person centred model, il ruolo dei PSP e della UX

Uno dei passi fondamentali per portare il paziente ad approcciarsi in modo attivo alla propria patologia e alle terapie che lo riguardano è allargare il focus dal suo contesto sanitario a quello quotidiano nella gestione della sua cura. Conoscere il vissuto del paziente, la sua quotidianità, i suoi bisogni emotivi e relazionali è utile per coinvolgerlo in modo diretto nella costruzione del suo progetto di cura. Affinché il paziente possa aumentare i comportamenti preventivi e usare in modo appropriato le risorse a sua disposizione, un possibile strumento da mettere in campo è la User Experience. Attraverso una fase di ricerca iniziale è possibile raccogliere comportamenti, opinioni, frustrazioni, bisogni e frasi chiave. Tra i possibili risultati di queste analisi vi sono dei patient journey maps dalla presa di coscienza dei sintomi sino al follow up.

Gli stessi Patient Support Program sono strutturati in modo da rendere il paziente un partecipante attivo, un decisore in fase di programmazione. L’ascolto diretto di quelle che possono essere le sue proposte e un’analisi approfondita dei suoi bisogni rappresentano la base di partenza per la creazione del protocollo.

Il paziente esperto al centro di un complesso gioco di squadra

Aumentare l’engagement del paziente è un vero e proprio impegno collettivo che coinvolge i diversi attori del mondo dell’healthcare. Per prima cosa è necessario sensibilizzare e formare i professionisti sanitari e il team di cura, poi i caregiver che rappresentano un tassello fondamentale per garantire l’aderenza terapeutica e la continuità assistenziale.

Le associazioni dei pazienti rappresentano un punto fermo a cui rivolgersi: sono dei veri e propri trait d’union ufficiali tra la voce dei pazienti e il mondo delle istituzioni.

A tessere le fila di un sistema completo e organico è il paziente esperto. Si definisce paziente esperto quella persona che, pur partendo da un’esperienza di malattia propria o di un famigliare, decide di affrontare un percorso di formazione intensiva e di livello tecnico importante indipendente dalla specifica patologia, per poi mettere competenze ed esperienze a servizio della ricerca e della comunità.

Migliorare la capacità dei Pazienti di trasmettere la formazione all’interno delle loro organizzazioni e facilitare il dialogo alla pari del paziente con l’Industria, l’accademia, le autorità e i comitati etici sono solo alcuni degli obiettivi dell’attività di patient advocacy. Come riportato nell’articolo Paziente esperto, da passeggero a co-pilota della ricerca terapeutica? Questa figura ha la potenzialità di acquisire nei prossimi anni una rilevanza pari a quella dell’operatore sanitario, in grado di operare sia come soggetto attivo, responsabile di ricerca in gruppi o network di pazienti, sia come consulente della ricerca industriale o accademica per fornire pareri o consigli.

[1]Graffigna, G., Barello, S., Bonanomi, A., & Lozza, E. (2015). Measuring patient engagement: development and psychometric properties of the Patient Health Engagement (PHE) scale. Frontiers in psychology6, 274.; Graffigna, G., & Barello, S. (2018). Engagement: un nuovo modello di partecipazione in sanità. PENSIERO SCIENTIFICO EDITORE. L’utilizzo del modello è solo su base di licenza (contatto: guendalina.graffigna@unicatt.it)

 

 

Personas, la chiave empatica nell’healthcare

“Finisco il Liceo quest’anno e il mio sogno è fare l’Erasmus a Parigi, mio papà ci ha vissuto, io non ci sono mai stata”.
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“Avergli passato la malattia è come un chiodo fisso, te fai tutte le tue cose ma poi non è che puoi non pensarci, però io mica voglio farglielo pesare”

Storie, sogni di viaggi, sensi di colpa o di inappropriatezza. Storie di persone, prima che di pazienti e caregiver. Storie che raccontano frammenti di realtà e che sono la sintesi di tante storie, come insegna la User Experience.

Ma che cos’è la UX?

Per User experience design research si intende l’attività che cerca di comprendere i comportamenti degli utenti, gli obiettivi e le loro esigenze per progettare servizi e prodotti totalmente centrati su di loro.

E se sostituissimo la parola user con paziente? Il modello funzionerebbe lo stesso perché il focus rimangono le persone.  Il nuovo approccio volto a disegnare servizi e strumenti di comunicazione sempre più specifici segue una regola principale: come spiega Maria Cristina Lavazza della UX University dobbiamo superare il concetto di utente medio e focalizzarci su un pubblico specifico e profilato.

Sentiamo spesso parlare di storytelling come risultato di campagne di comunicazione e sensibilizzazione, ma se questo diventasse la metodologia di raccolta delle informazioni? Se le esperienze si sostituissero ai dati per la costruzione del journey del paziente? Il risultato sarebbe un sistema di storie funzionali a far emergere i bisogni e le frustrazioni su cui poter costruire soluzioni di valore.

Quindi la ricerca iniziale cosa raccoglie? Comportamenti, opinioni, frustrazioni, bisogni, frasi chiave raccolte con una varietà di strumenti di analisi che possono essere qualitative, esplorative, descrittive, partecipative mescolandosi con dati quantitativi. I risultati di queste analisi sono molteplici: i patient journey maps raccontano la vita del paziente dalla presa di coscienza dei sintomi sino al follow up, ma è possinbile visualizzare i risultati attraverso veri e propri storyboards. Anche i personas nascono da queste analisi e si collocano tra i buyer personas, modelli che partono dai dati utilizzati dal marketing e le protopersonas, profili frutto di un lavoro elaborato con le nostre personalissime lenti.

Il lavoro della UX comprende anche una parte importantissima che da vita a filtri con cui guardare nella maniera più oggettiva la realtà, attraverso la narrazione.  “Maria sta finendo il Liceo e vuole trasferirsi all’estero”. La frase chiave ci permette di entrare in profondità nel mondo di Lucia, che è un personas, per capire come la malattia la vincola nelle sue scelte ma anche nella sua quotidianità, come si compone il suo universo di relazioni, luoghi e azioni. L’approccio permette di trasformare gli insight in possibilità per creare strumenti di comunicazione e servizi ad hoc.

 Allenare l’empatia come strumento per raggiungere i touchpoints

 Riuscire a delineare quelli che sono i personas pazienti, attraverso un’analisi delle informazioni raccolte riguardo ai loro bisogni e comportamenti non è un processo semplice ma permette di focalizzare i servizi sui reali touchpoints.

Come spesso accade ci si limita a segmentare macro gruppi di persone che registrano alcune affinità senza scavare più a fondo, ma soprattutto senza sfruttare un attrezzo fondamentale della user experience, l’empatia.

La capacità di porsi nella situazione di un’altra persona, l’abilità di sentire sulla propria pelle le percezioni dell’altro, per farle proprie e declinarle in una proposta concreta.

Uno strumento che può rivelarsi utile per questo scopo è proprio l’empathy map. Perfetto per raccogliere e gestire le informazioni collezionate attraverso ricerche dirette o indirette sui pazienti, si tratta di un canvas in cui il profilo dell’utente si trova al centro e il lavoro consiste nel cercare di rispondere a 6 domande fondamentali, sulla base dei valori raccolti. Cosa pensa e sente il paziente? Quali sono le opinioni riguardo al servizio offerto che il paziente ascolta da altre persone? Cosa vede? Come si comporta e quale è il suo approccio con la terapia? Che dolori percepisce? Quali sono i suoi valori, che cosa lo rende veramente felice nella vita?

Queste sei proposte di domande rappresentano l’esempio base del modello di mappa empatica che può essere personalizzata anche sulla base delle esigenze.

“I dati recuperati in fase di ricerca con gli utenti possono essere complessi, eterogenei e a volte confusi, il canvas offerto aiuta a trovare un filo conduttore sul quale lavorare in maniera congiunta” come suggerisce Maria Cristina Lavazza nell’Le empathy map del suo blog in cui analizza questo strumento.

Comunicare le Personas

Conoscere e comprendere attraverso la user experience chi sono veramente i pazienti, la loro quotidianità e le loro emozioni, è fondamentale per raccontarli nel modo migliore e comunicare agli stakeholder quali sono le loro esigenze e le loro vere necessità. Andando oltre una presentazione stereotipata tipica di un power point creato per un marchio di cosmesi, nel mondo dei servizi al paziente scendere nel particolare e raccontare l’anima di chi vive tutti i giorni una terapia o è costretto a dei follow up periodici è tanto fondamentale quanto complesso.

Qual è il giusto equilibrio tra informazioni meramente descrittive, comportamentali e di contesto? Le prime sono legate a un racconto informativo, di dato della persona in esame: età, dove vive, dove è nata e cosa fa di professione. Con informazioni comportamentali invece si considerano quelle legate alle abitudini, alle routine, a dei meccanismi psicologici di attivazione di alcuni gesti. Le ultime tipologie di informazioni sono connesse all’utilizzo del servizio proposto.

Come scegliere a cosa dare risalto?

Non esiste una regola scientifica, ogni informazione è veicolo di aspettative e immagini mentali. Nel mondo dell’healthcare, l’aspetto comportamentale del paziente è uno dei requisiti fondamentale per strutturare servizi e prodotti che gli consentano una quotidianità libera da vincoli, ma le informazioni descrittive e di contesto contribuiscono a definire in maniera più specifica il soggetto focus dell’attenzione.

L’approccio legato alla user experience e in particolare al modello dei personas permette di dare forma a soluzioni altamente personalizzate che pongono il paziente al centro. Un primo passo per avvicinare Maria al suo desiderio: quello di vivere a Parigi, proprio come suo padre.