Patient ambassador, un aiuto peer-to-peer per i pazienti

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“Come ti sei sentito al momento della diagnosi?”

“Sono spaventato perché sento che la mia vita cambierà, tu ti sentivi così?”

Arriva la diagnosi e ogni paziente si trova a vivere un momento cruciale nella sua journey di malattia. Imparare a convivere in un nuovo assetto, quello di malato, è estremamente complesso, molto spesso genera dubbi e sensi di inappropriatezza.

Negli ultimi anni la cura si accompagna ad un altro bisogno fondamentale: quello di condivisione.

A volte i pazienti hanno bisogno di altri pazienti

 “Altri pazienti ti possono aiutare. Hanno (o hanno avuto) la tua condizione, così come le tue ansie e domande. I loro percorsi possono essere istruttivi e utili e possono aiutare a prepararti per il prossimo appuntamento con il medico”. Così scrive Aaron E. Carroll, professore di pediatria alla Indiana University School of Medicine, descrivendo come anche nel mondo sanitario valga una delle attitudini più comuni dell’essere umano: il confronto con chi si ritiene simile.

Già all’inizio degli anni 2000, a fianco delle più tradizionali Associazioni di Pazienti, sono nati i primi blog, forum e siti web in cui i pazienti hanno cominciato a condividere le proprie esperienze e a rispondere alle domande di altri che si trovavano nella loro stessa situazione.

Ma se, invece di cercare online, si potesse trovare l’appoggio di un altro paziente all’interno del proprio programma di supporto?

I patient ambassador nei PSP

In alcuni programmi di supporto si sta delineando in modo sempre più marcato la figura di un paziente che, avendo già vissuto una parte del percorso di cura, diventa un vero e proprio riferimento per altri che ancora devono affrontarlo. Questa tipologia di paziente può essere definita ambassador.

Nelle survey di qualità che di prassi vengono somministrate ai pazienti inseriti in un PSP, uno dei bisogni che emerge con più frequenza è quello di avere un paziente più esperto appartenente allo stesso programma con cui condividere i pensieri, le preoccupazioni e le domande che sorgono nella quotidianità. Un aiuto peer-to-peer che non si sostituisca mai alla figura dello Specialista ma che possa aiutare in tutti quegli aspetti soft che comporta l’essere malato.

Il ruolo e la formazione dei patient ambassador

Il ruolo del paziente ambassador può quindi diventare una componente chiave in progetti di supporto al paziente, e per questo deve essere studiato e regolamentato.

Questa figura deve ricevere una formazione sull’importanza della riservatezza delle informazioni che riceve, sulle modalità di trasferimento e sulla gestione delle stesse. Attraverso l’utilizzo dei mezzi di comunicazione digitale, dei social network, delle chat e dei forum di discussione, il rischio di mettere online informazioni sensibili è sempre più alto. Per questo motivo è importante che i profili emergenti nel mondo helthcare ricevano anche una formazione più tecnica per risultare complianti alle nuove regole del GDPR.

Fornire un supporto ad altri pazienti, richiede che questi ambassador lo ricevano a loro volta, per evitare che il peso emotivo di cui si prendono carico non sfoci in situazioni di burnout.

Rivivere alcune situazioni attraverso le preoccupazioni e le paure di chi le sta affrontando, può portare questi pazienti a influenze sulla propria emotività. Per questo, può risultare utile un percorso con una figura di counsellor in grado di offrire un supporto passo dopo passo.

Come si sceglie un paziente ambassador?

Ci sono scale e questionari che dipendono dal tipo di supporto che viene richiesto: selezionare il giusto patient ambassador deve tenere conto del tipo di supporto disegnato. Due variabili determinanti possono essere rappresentate dal livello di engagement nel suo percorso di cura e dal suo “stay in PSP”.

Si tratta di un ruolo che ancora presenta confini poco delineati, ma che indubbiamente nasce da un bisogno forte dei pazienti. Pertanto, una delle sfide attuali del mondo healthcare è quella di formare al meglio le nuove figure dei patient ambassador, rendendoli testimoni credibili, con basi solide e supporto necessario per essere al meglio vicino agli altri pazienti.

PSP: la partnership Pharma provider per la creazione di valore

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Passare dal concetto di “cura” a quello di “prendersi cura” è alla base delle attuali sfide in ambito sanitario ed è anche il fondamento dei Patient Support Programs.

Far conoscere ai futuri manager del settore sanitario e biomedicale le novità riguardo ai PSP, ma soprattutto illustrare loro il punto di vista delle aziende che li utilizzano è fondamentale.

Per questo motivo, HNP da qualche anno cura nel Master in Management del Settore Sanità, Pharma e Biomed del Sole 24 Ore Sanità un modulo dedicato ai PSP, in cui vengono presentate agli studenti le evoluzioni, l’operatività e le svolte digitali dei Programmi di Supporto al Paziente.

Quest’anno, Luana Casetti, Marketing Manager di Akcea Therapeutics e Susanna Amoresano, Responsabile PSP e coordinatrice emofila e medical affair di Bayer, hanno portato in aula le loro esperienze di Pharma che usufruiscono dei PSP.

Le due realtà mostrano come i PSP possano trovare applicazione in fasi differenti del ciclo di vita di un prodotto farmaceutico, dal lancio alla maturità di un prodotto e in aree terapeutiche che presentano alcune analogie e molte differenze.

Entrambe le testimonianze hanno evidenziato un punto in comune: come la relazione tra Azienda e provider possa essere cruciale nella creazione del valore per tutti i destinatari dei PSP, tanto in aree terapeutiche dove questi sono una novità – come nel caso di Akcea – quanto in quelle come l’emofilia dove sono considerati degli standard di servizio, come spiega Amoresano.

Akcea Therapeutics, che opera in un’area dove il PSP non è considerato standard ma innovazione, ha raccontato davanti ad un’aula di futuri manager del settore Sanità il suo impegno nella creazione di valore per pazienti e medici.

In che modo i Patient Support Programs rispondono alla vostra strategia aziendale? 

“Akcea Therapeutics lavora con costante impegno per sviluppare nuovi trattamenti volti a trasformare la vita dei pazienti con gravi malattie rare. La nostra organizzazione è presente in Italia dal 2018, siamo quindi una realtà giovane e fortemente innovativa. In questo contesto è indispensabile agire coinvolgendo i pazienti affetti dalle gravi patologie rare contro le quali operiamo e tutti gli interlocutori che ruotano intorno ad essi. I PSP sono quindi cruciali per supportare il percorso terapeutico e i bisogni di pazienti e caregiver; sono altresì importanti per differenziare Akcea Therapeutics come un’azienda che non è semplicemente un fornitore di prodotti, ma una realtà capace di affiancare in maniera affidabile e continuativa sia il sistema sanitario che il paziente. La scelta di un provider, come spiegato nel corso della testimonianza, risulta cruciale per la buona riuscita di un PSP”.

Trovarsi davanti ad un’aula a presentare delle case histories di successo può essere considerato un esempio di partnership Pharma – provider?

“Sì, senza dubbio. Solo tramite un costruttivo e collaborativo rapporto tra provider e azienda è possibile configurare un servizio che vada incontro alle reali esigenze dei pazienti. La partnership tra Akcea Therapeutics e HNP è funzionale all’identificazione dei bisogni dei pazienti che non sono mai uguali per tutti, ma che si differenziano da persona a persona, e permette di ascoltare e rendere unico ogni paziente. Poterlo raccontare ad un’aula di futuri manager del mondo della sanità, confrontandosi in maniera franca e costruttiva, non può che rafforzare la solida partnership già esistente tra Akcea Therapeutics e HNP, fungendo anche da serbatoio di idee per migliorare e innovare ulteriormente la nostra proposta di valore”.

Healthcare Service Design: tools & tips per progettare un patient support program

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Unmet needs, patient journey, service blueprint, stakeholder map, process engineering sono solo alcuni degli strumenti da mettere in campo per realizzare programmi healthcare snelli e centrati sulle esigenze dei pazienti.

Garantire la sostenibilità di un sistema sempre più caratterizzato da vincoli di budget, bisogni differenziati e sempre più personalizzati, rappresenta la sfida principale che tutti gli attori del sistema sanitario nazionale e internazionale affrontano ogni giorno e che si trova al centro dei principali dibattiti sui nuovi modelli assistenziali.

E i programmi di supporto al paziente? Siano essi di aderenza terapeutica, educazione sanitaria, lifestyle support o qualsiasi altra forma di gestione della cronicità, sono stati riconosciuti come strumenti a disposizione per razionalizzare le risorse, rispondendo al contempo ai bisogni sempre più personalizzati degli attori coinvolti.

Per poter mantenere la promessa di incrementare i patient outcomes risparmiando i costi, il programma deve essere snello, user-friendly, duttile, standardizzato, ma anche personalizzato. Gli stessi attori che si cimentano nella sua creazione – siano essi, farmacie, ospedali, cliniche private, industrie farmaceutiche o medical device company – devono riuscire a mantenere ruoli e comunicazioni chiari ed efficaci.

Ma quali sono le leve e gli strumenti utili per farlo?

Il Service Design è un approccio alla progettazione che ha bisogno di competenze differenziate: mediche, analitiche, di ascolto, di ingegnerizzazione di processo e IT, che devono essere orchestrate in modo efficace attraverso la scelta di differenti strumenti a disposizione. L’obiettivo è offrire un servizio eccellente nel modo più veloce ed economico possibile.

Quali sono gli step alla base di questo approccio?

Prima regola: un ascolto continuo

Il bisogno dei destinatari del programma si identifica mettendo in atto processi continui di ascolto su vari canali: un blog per pazienti o medici, per esempio, diventa uno strumento essenziale per monitorare costantemente gli unmet needs all’interno di una specifica area terapeutica. Anche le interviste strutturate, se condotte ciclicamente su un campione di popolazione, possono essere un metodo efficace di audit dei bisogni dei pazienti e della comunità scientifica.

Gli unmet needs, a cui il programma deve rispondere, vanno approfonditi e soprattutto quantificati. Esistono diversi strumenti utili allo scopo quali i focus group – per indagare gli aspetti più qualitativi e costruire mappe di esperienza, o i questionari per quantificare e targhettizzare le categorie di benefici, dimensionando gli eventuali investimenti da impiegare nella costruzione del programma.

Seconda regola: una costruzione partecipativa

La costruzione di un programma che risponda ai bisogni di una pluralità di attori necessita di considerare la loro prospettiva, siano essi pazienti, medici, ospedali, farmacie, istituzioni, etc. I service advisory board sono strumenti utili all’ascolto di medici, o ancora i panel di discussione e le tavole rotonde istituzionali dove può assumere un importante valore il ruolo del paziente esperto.

Il confronto tra i vari attori può essere stimolato sulla base del patient journey di una specifica patologia.

Terza regola: processi snelli e user-friendly

Il programma, come qualsiasi organizzazione, funziona se fondato su processi snelli e user-friendly. Per questo è utile combinare strumenti di process engeneering e user experience.

Qui troviamo strumenti quali il service blueprint e il process mapping, che sono rappresentazioni semplificate della sequenza di attività. Il primo si focalizza sulle interazioni tra i vari attori e sui touchpoints sui quali è necessario porre l’attenzione affinché l’esperienza di tutti i destinatari coinvolti sia positiva. Il secondo si focalizza sulla serie di attività e sui flussi, al fine di non incappare in colli di bottiglia o inefficienze informative nella fruizione del programma.

Quarta regola: attestare il valore del programma

Non c’è da sorprendersi che in un’epoca in cui si inizia a comprendere il valore dei dati, l’Industria e i providers di programmi ad alto valore aggiunto siano chiamati a mostrare evidenze statistiche della loro efficacia e del valore apportato dalla loro offerta. Proprio in questo punto entrano in gioco strumenti quali la customer satisfaction, che può essere progettata in fase di design e ciclicamente somministrata agli utenti del programma, i case report su dati clinici raccolti e i report su dati di aderenza clinica che producono considerazioni cliniche e farmaco-economiche.

 

BETHCARE, il diabete ha il suo primo PSP

Il prossimo dicembre si avvierà il primo programma che, come suggerisce il suo nome, ha una missione chiara: prendersi cura dei bisogni dei pazienti affetti da diabete di tipo 2.

Attraverso il supporto non condizionato di Novo Nordisk si da il via a un servizio che vuole offrire un supporto al paziente diabetico a 360 gradi.

“Creiamo valore attraverso un approccio basato sulla persona”, è questo lo statement di Novo Nordisk che ha guidato la creazione del PSP a partire da un punto di partenza ben preciso: l’analisi dei bisogni dei pazienti.

La raccolta delle storie di chi vive quotidianamente questa malattia, la condivisione delle paure, delle frustrazioni ma anche dei traguardi è stato il risultato di un’attività di User Experience fondamentale per selezionare le componenti di valore per un PSP così ambizioso.

I risultati di questi focus group sono stati la base di partenza che, assieme al materiale scientifico, è servita per creare un programma di supporto che spazia dall’alimentazione agli stili di vita, passando per la gestione degli aspetti più emotivi legati alla patologia, emersi come un bisogno fortemente sentito dai pazienti.

La tecnologia? Ricopre un ruolo importante, ma non è l’unico canale per poter usufruire del PSP, per rispondere alle abitudini di un paziente che può preferire il canale analogico a quello digitale.

BEthCARE ha una ambizione: favorire l’engagement del paziente attraverso un supporto personalizzato.

Lo scorso 19 Novembre questo lavoro profondo e attento è stato condiviso con i CAD che partiranno col progetto pilota in un kick off meeting moderato dai due Key Opinion Leader: il Dr. Bossi, Responsabile dell’UOC Malattie Endocrine – Centro Regionale Diabete mellito dell’ASST di Treviglio e il Dr. Manunta Responsabile dell’UO di Diabetologia – Casa di Cura Triolo Zancla di Palermo. L’occasione ha permesso di presentare i dettagli del PSP e fare in modo che I CAD coinvolti siano parte attiva di questo importante progetto volto a migliorare la qualità di vita dei pazienti coinvolti.

Webseries, raccontare la sanità a puntate

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“Quello di cui mia figlia Francesca avrebbe bisogno è rivedersi nelle storie degli altri, per capire che non è sola e che qualcuno come lei ci prova ogni giorno” dice Gabriella, la mamma di una paziente affetta dalla malattia di Fabry. Riconoscersi guardando qualcuno come lei attraverso uno smartphone o qualsiasi dispositivo connesso. Fruire di codici narrativi che non ci abbandonano dall’infanzia: serve una storia e un personaggio con cui immedesimarsi, sono questi gli ingredienti per una webserie. Il successo della serialità, applicato alla capillarità del web, permette di produrre contenuti di successo per tutte le fasce di utenti, anche per quelli che più di altri hanno bisogno di immedesimarsi: i pazienti e i loro caregiver. Il vantaggio delle webseries in ambito sanitario? Senza ombra di dubbio la potenza delle loro storie.

 Webseries, la forza dell’immedesimazione

Puntata dopo puntata creiamo un patto con i personaggi della storia: ci arrabbiamo, tifiamo per loro, ci affezioniamo ma soprattutto finiamo per sentirci un po’ loro. L’immedesimazione è un fattore fondamentale. Nel mondo della salute questo effetto risulta amplificato dalla possibilità di coinvolgere nella serie i diretti destinatari: pazienti reali, come tutte le figure che gravitano loro attorno. Lo sanno bene gli operatori dell’Asl di Napoli 2 nord che hanno creato una webserie di 25 puntate per promuovere gli screening oncologici, ma soprattutto per ridurre la distanza tra medici e pazienti. I Capitani ha come protagonisti 25 medici, uno per puntata, che racconteranno che cosa significa lavorare in un ambiente particolare come quello ospedaliero, quali sono le sfide giornaliere e quanto queste impattano nella loro quotidianità di persone prima che di medici. Azzerare le distanze, umanizzare le figure che molto spesso vengono percepite come totalmente lontane dagli assistiti.

La possibilità di utilizzare la serialità permette infatti di prendere parte all’evoluzione dei personaggi, facilitandone l’immedesimazione.

Come spiega Luca Mastrantonio, saggista e docente di comunicazione e storytelling multimediale all’Università IULM di Milano nel suo saggio Emulazioni pericolose – L’influenza della finzione sulla vita reale, alla forza centrifuga degli intrecci a episodi si contrappone la forza centripeta dei personaggi che hanno una forte carica emotiva e sono in evoluzione, come nei romanzi di formazione. Questo crea un legame così stretto con lo spettatore, che spesso quest’ultimo si ispira alle storie che ha visto nelle series per le proprie scelte di vita. Punto critico nell’ambito della salute, che per questo richiede uno sforzo in più nella direzione artistica: lavorare su una storia reale e smussarne gli angoli ai fini di renderla più scorrevole. La finzione diventa solo un filtro per fruire della realtà.

Il viaggio dell’eroe, dalla diagnosi alla quotidianità

Ogni webserie mette in scena una storia ed ogni storia segue quello che nella comunicazione si chiama il viaggio dell’eroe: il protagonista è chiamato ad uscire dal proprio mondo ordinario per qualche accadimento e inizia ad affrontare delle prove da cui ne esce cambiato. Il viaggio del paziente lo riprende fedelmente: da una situazione iniziale di normalità si finisce tra i corridoi di un ospedale e da lì iniziano le prove da superare, le ricadute che minano il percorso e i mentori, come i caregiver e gli Specialisti, che lo accompagnano in questo susseguirsi di climax e stasi. Come tutte le storie, anche questa ha bisogno di un finale: il cambiamento del paziente ed una nuova consapevolezza.

Come si traduce questo in una webserie sanitaria? In un certo numero di puntate, ognuna focalizzata su certi aspetti, sulle riflessioni e sulle esperienze che informano, responsabilizzano ed educano lo spettatore. È questo l’esempio di #lenostrestorie: la campagna di sensibilizzazione sulle neuropatie disimmuni di CIDP Onlus- otto puntate, otto storie, otto viaggi da raccontare. Elisabetta e la sua piccola Emma sono le protagoniste del primo episodio. “Dopo l’irrompere improvviso di una malattia grave e sconosciuta, proprio durante le festività natalizie, Emma e la madre ritrovano una speranza di cura e la fiducia nel domani”. All’apparenza l’incipit di un perfetto romanzo, è in realtà il racconto di un momento che ha caratterizzato l’esistenza delle due protagoniste, portandole ad affrontare la vita come due vere eroine in un viaggio.

Il successo delle webseries viene guardato con favore anche dall’Industria: può diventare uno strumento utile per fare educazione sulla patologia o su aspetti ad essa correlati. Se per esempio una patologia richiedesse una forte attenzione ad aspetti legati al controllo della dieta, perché non creare una webserie in cui due protagonisti cucinano piatti semplici e raccontano quanto possa essere difficile ma al contempo utile rispettare certe regole alimentari? È il caso di una webserie spagnola pensata per pazienti con malattia renale cronica.

La chiave dello storytelling: la diffusione della rete

Come suggerisce il termine, il canale per la fruizione di queste stories è il web. Le istanze formali della serialità televisiva si convertono a metodi di fruizione tipici della rete: la webserie diventa più diffusa e democratica. Questo tipo di prodotto può diventare uno strumento dell’Associazione pazienti da utilizzare sui propri canali, può essere condivisa sui social e soprattutto è accessibile sempre e in qualsiasi luogo poiché richiede solo una connessione.

#huntingtonstories, per esempio, è una webserie realizzata grazie alla collaborazione di familiari, malati e volontari di Huntington Onlus. Ogni puntata ha un protagonista diverso che racconta la patologia e la vita dopo la diagnosi. La pubblicazione su YouTube ha permesso all’Associazione di ricondividere gli episodi sulla propria pagina Facebook e sul sito, punti di riferimento fondamentali per familiari, caregivers e pazienti alla ricerca di testimonianze.

Il nodo della privacy

Raccontare la propria storia, la patologia e le difficoltà di ogni giorno richiede molto coraggio e tante tutele, soprattutto se il mezzo con cui si sceglie di diffonderle è la rete. In molti casi, infatti, lo storytelling in ambito sanitario si realizza mantenendo l’anonimato dei protagonisti, scegliendo nomi di finzione o omettendo il cognome dei protagonisti della storia. Si può decidere di ricorrere all’uso di attori che, proprio come in altri contesti, studiano i loro personaggi utilizzando un copione che è frutto di attività di user experience sulla comunità di pazienti di interesse.

Esistono molti modi per creare un prodotto di storytelling che racconta di tematiche delicate, intime e personali rispettando la privacy di chi decide di aprirsi e raccontare una parte così importante della propria vita.  In questo modo il prodotto diventa un messaggio capace di veicolare informazioni e valori.

 

Formazione, il valore delle relazioni e della collaborazione nell’healthcare

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La velocità delle connessioni internet aumenta e i digital device permettono di fruire di qualsiasi tipo di materiale multimediale senza rallentamenti o difficoltà, comodamente dal proprio divano di casa. Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione ha favorito l’evoluzione di sistemi per la formazione a distanza anche nel mondo healthcare, come soluzione a problemi logistici ed economici. Ma l’e-learning può sostituire completamente la formazione tradizionale fatta di corsi di aggiornamento periodici e lezioni in aula a fianco di altri professionisti del settore? La relazione, la collaborazione diretta e l’incontro rappresentano un tassello fondamentale per la crescita personale e lavorativa delle risorse umane nell’healthcare.

A spiegare l’importanza di integrare questi due approcci formativi è proprio Sara Elisabetta Masi, HR Manager presso Healthcare Network Partners (HNP).

In una realtà molto diffusa sul territorio come HNP, che unisce professionalità diverse, perché è così importante trovare un momento in cui incontrarsi fisicamente? In che modo questo metodo si affianca alla formazione a distanza?

“L’importante crescita sul territorio che ci ha caratterizzato in questi anni e i molteplici e differenti programmi che quotidianamente realizziamo ci hanno portato a dover integrare diverse metodologie formative in base agli obiettivi che vogliamo perseguire. Per questi motivi, abbiamo privilegiato la formazione a distanza – possibile grazie alle nuove tecnologie, per trasferire in modo tempestivo e capillare le competenze tecnico-professionali teoriche legate alle patologie e ai protocolli – e quella on the job (affiancamenti sul campo) per approfondire sul campo le competenze acquisite.

Quando però, in ottica di miglioramento continuo, abbiamo la necessità di confrontarci per rileggere i processi e ripensare i protocolli, l’incontro in aula è fondamentale. Nei programmi erogati è di grande importanza la comprensione delle esigenze dei nostri pazienti e di come queste si modificano nel tempo: l’aula in tal senso non è più solo il luogo della lezione frontale teorica, ma è il luogo per mettere in atto un processo bottom up capace di ascoltare chi opera quotidianamente sul territorio al fine di rimettere in discussione anche le nostre routine organizzative se necessario. È con questo scopo che abbiamo organizzato eventi formativi che hanno messo in aula più di 80 colleghi infermieri: aggiornamento, allineamento e dunque definizione di standard condivisi a livello nazionale, ma anche confronto sulle difficoltà e criticità che gli infermieri incontrano quotidianamente al fine di individuare soluzioni organizzative condivise”.

 Quanto è importante superare l’approccio frontale della formazione e rendere l’incontro maggiormente interattivo?

“Durante gli incontri formativi con gli operatori healthcare, prevediamo generalmente interventi frontali capaci comunque di lasciare spazio a domande e a momenti di discussione. Per favorire il confronto, sviluppiamo case studies partendo da situazioni reali raccolte negli anni. In piccoli gruppi, i nostri operatori si possono confrontare per individuare soluzioni alle diverse situazioni proposte, allineandosi su eventuali differenti modalità di agire. Grazie a simulazioni, case studies, role playing, perseguiamo anche un altro meta-obiettivo: quello di permettere alla nostra rete di professionisti di  conoscersi, di associare volti a nomi e di sapere che ci sono colleghi in regioni vicine e lontane ai quali poter chiedere supporto e che sono disponibili al confronto”.

 Quando si parla di formazione, l’innovazione sta proprio nella collaborazione.  La formazione non arriva più solo dalle risorse umane, ma anche chi la riceve fornisce un contributo attivo. Per sottolineare il contributo degli operatori healthcare nello sviluppo del loro stesso aggiornamento e della loro crescita professionale, abbiamo chiesto un parere a Lorenzo Mazzarella, Territory Manager Nurse di HNP.

 Quanto è importante che la formazione non sia solo top down, ma bottom up? 

“Ci sono molti aspetti che al giorno d’oggi portano un’azienda a rivedere le modalità di formazione dei collaboratori: flessibilità, tempi ristretti, tecnologia sempre più pervasiva, contenimento dei costi e soprattutto l’esigenza di coinvolgere professionisti con un importante mix generazionale; la formazione frontale top down sta lasciando il passo ad un modello bottom up e circolare.

Siamo nell’era in cui le informazioni circolano orizzontalmente sui social, nelle community e nelle chat; i formatori dovranno essere sempre più abili a lasciare la standardizzazione della formazione e aprire le porte alla personalizzazione, alla condivisione e alla collaborazione con la popolazione aziendale.

Sarà il livello delle conoscenze e competenze dei collaboratori, oltre agli obiettivi formativi aziendali, a guidare i nuovi percorsi di crescita culturale e innovazione aziendale coinvolgendoli come attori di questo nuovo paradigma formativo.

La nuova aula sarà così formata da partecipanti attivi nelle simulazioni su casi concreti, nella condivisione di esperienze, nello scambio di conoscenze e nel confronto; un’aula aperta, luogo di nuove esperienze che non terminano alla fine della giornata, ma che proseguiranno attraverso il social learning e alle nuove piattaforme di formazione digitale”.

L’utilizzo dei dati sanitari raccolti nei PSP tra Privacy e GDPR

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In un mondo sanitario che si sta modellando sulla spinta delle nuove tecnologie che introducono nutrite potenzialità di raccolta, di calcolo e di analisi, i dubbi in merito ai limiti imposti dalla legge nel trattamento dei dati non fanno che crescere.

Sono tante le domande che gli operatori sanitari del mondo healthcare si pongono sui cambiamenti introdotti dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR).

E alla luce delle recenti discussioni in materia di Real World Evidence e Real World Data, sono consistenti anche le perplessità riguardo all’utilizzo dei dati raccolti dai Programmi di Supporto al Paziente (PSP).

I PSP fanno del monitoraggio costante del paziente il loro principale ingrediente, si basano sulla raccolta di dati e conseguentemente di evidenze, ma in che modo possono essere maneggiate queste informazioni?

Per cercare di dare una risposta a questi quesiti, abbiamo fatto qualche domanda all’Avvocato Silvia Stefanelli che da anni offre consulenza nelle diverse tematiche inerenti il diritto sanitario.

  • Quali sono stati i principali cambiamenti introdotti dal GDPR sui dati sanitari?

I cambiamenti più rilevanti sono senza dubbio quelli relativi alla base di liceità del trattamento.

Mentre il trattamento del dato sanitario nella precedente architettura normativa della dir 95/46/CEE e del “vecchio” Codice Privacy era (quasi) sempre il consenso del paziente, nel nuovo GDPR sposta l’attenzione sulla finalità di trattamento.

In altre parole è la “ragione”  per cui i dati vengono trattati che ne determina la base di liceità: così se il dato viene trattato per finalità di diagnosi, assistenza e terapia (art. 9 lett. h) e chi lo tratta è un professionista sottoposto al segreto professionale, non occorrerà alcun consenso perché la base di liceità sarà direttamente nell’art. 9 comma 2 lett h  e art. 9 comma 3 del GDPR; viceversa, se la finalità è diversa (per esempio la soddisfazione del paziente) oppure manca il requisito di cui all’art. 9 comma 3 (trattamento da parte di soggetto sottoposto al segreto professionale), occorrerà cercare un’altra base di liceità di trattamento, che presumibilmente potrà essere il consenso del paziente.

  • È possibile e con quali “accortezze” utilizzare i dati acquisiti nell’ambito dell’erogazione dei servizi assistenziali?

Si, certo. Anzi i dati relativi alla salute sono considerati un “bacino” di informazioni molto importante. È lo stesso GDPR che al Considerando 157 spiega l’importanza dell’utilizzo dei dati contenuti nei registri anche per finalità diverse rispetto a quelle per cui i dati sono stati raccolti e al Considerando 159 ci spiega che la nozione di ricerca scientifica del GDPR deve essere interpretata “in senso lato e includere ad esempio sviluppo tecnologico e dimostrazione, ricerca fondamentale, ricerca applicata e ricerca finanziata da privati, oltre a tenere conto dell’obiettivo dell’Unione di istituire uno spazio europeo della ricerca ai sensi dell’articolo 179, paragrafo 1, TFUE”.

Chiaro che il trattamento dei dati sanitari per finalità diverse da quelle di diagnosi e cura deve comunque rispettare in primo luogo (e tra gli altri), i principi di liceità e trasparenza: vale a dire che occorre identificare con esattezza la finalità del trattamento – e quindi, di conseguenza, identificare la base giuridica del trattamento – rispettare il principio di trasparenza, cioè informare in maniera chiara e completa il paziente delle finalità di trattamento (attraverso l’informativa) e valutare la corretta base giuridica di trattamento.

  • Il dato raccolto nei PSP può essere utilizzato per effettuare analisi di Real Word Evidence, quali sono i passaggi necessari per farlo correttamente?

È una domanda molto complessa che oggi non ha una risposta chiara. Io credo però che il quadro normativo permetta alcune considerazioni.

La Real Word Evidence è un’analisi dei dati raccolti nell’ambito della somministrazione di un farmaco al di fuori di un trial controllato.

Allora, sotto il profilo trattamento dato, il punto cardine è – a parer mio – quello prima analizzato: quale è la finalità di questa analisi che viene effettuata sui dati reali e chi tratta questi dati. Facciamo qualche esempio.

Se la finalità è la valutazione della soddisfazione, o della aderenza del paziente al farmaco o dispositivo, potremmo essere di fronte ad un trattamento per la customer satisfaction oppure una farmacovigilanza o sorveglianza post marketing del dispositivo medico, per le quali occorrerà cercare la corretta base di trattamento anche a seconda di chi è il titolare di questo trattamento, nonché verificare che il paziente sia stato informato di tale trattamento ulteriore.

Se viceversa il trattamento dei RDW ha come finalità quella di estrarre informazioni finalizzate ad una verifica di natura scientifica, allora i riferimenti normativi possono cambiare. In questo caso il quadro normativo si complica perché, mentre il GDPR disciplina solo la ricerca scientifica (art. 89), il nostro Codice Privacy distingue tra ricerca scientifica con dati sanitari (art. 107 del Codice) da ricerca medica ed epidemiologica (art. 110 del Codice privacy), senza però chiarire la distinzione tra la nozione di “scientifico” da quella di “medico”.

La domanda, pertanto, non ha una risposta univoca: la stessa va sempre cercata nelle finalità del trattamento.

 

 

Real World Evidence, la sfida italiana

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RWE. Una parola che genera al contempo attrazione, come ogni nuova tendenza che inizia a diffondersi in un ambito lavorativo, ma anche diffidenza, poiché le modalità di applicazione dell’RWE hanno contorni ancora poco definiti e chiari.

Dal teorico studio accademico, gli operatori del mondo healthcare, vorrebbero vedere la Real World Evidence declinata in strumenti quotidiani che possano rendere tangibili le possibilità di questo approccio.

Ma, concretamente, cosa significa cogliere la sfida che il nuovo paradigma dei Real World Data ci sta ponendo?

Partendo dalla definizione, secondo quanto riportato dalla Food and Drug Administration  nel 2016, la Real World Evidence è l’evidenza clinica relativa all’uso e ai potenziali benefici o rischi di un prodotto medico derivato dall’analisi dei Real World Data (RWD – “dati del mondo reale”). L’evidence deriva da un accurato piano di ricerca e di analisi, predefinito e successivamente interpretato. La FDA ha già delineato come sia possibile utilizzare sia i Real World Data che le loro evidenze per monitorare la sicurezza post mercato, gli eventi avversi e per prendere decisioni normative. La comunità sanitaria potrebbe servirsene per valutare linee guide e scelte di pratica clinica. La comunità dei pazienti potrebbe beneficiarne nell’ottenere cure sempre più personalizzate in base al proprio profilo di salute. L’Industria potrebbe utilizzarli per dimostrare il valore del proprio prodotto in tutte le fasi del ciclo di vita, dallo studio clinico alla sua maturità. Ad esempio, attraverso una valutazione dell’unmet need clinico per lo sviluppo di una nuova terapia, una valutazione del budget-impact per la fase di accesso di un nuovo prodotto, uno studio di aderenza o uno studio del valore apportato dal servizio in caso di rinegoziazione di un farmaco e così via.

RWE e la sfida dell’accesso al dato

Uno dei motivi per cui in Italia l’RWE non è così utilizzata risiede nelle fonti del dato, molto eterogenee, e che spesso risultano di difficile accesso e non organizzate in database completi e fruibili in breve tempo.

Le cartelle cliniche informatizzate non presentano formati standard, vi è una mancata uniformità dei database amministrativi e questi ultimi non sempre sono di semplice fruizione, sia per motivi più tecnici legati alle strutture e alle conformazioni dei database, che per difficoltà legate ai permessi di accesso, le difficoltà incontrate dai centri clinici nel poter impostare un follow-up puntuale della malattia. Sono queste le difficoltà che quotidianamente affronta chi decide di cogliere la sfida posta dal nuovo paradigma della RWE.

Come i servizi a domicilio si inseriscono nella grande sfida dei dati

Una delle fonti del dato ancora poco considerata quando si parla di RWE è quella dei dati derivanti dai servizi di home-therapy che possono rappresentare, per la comunità scientifica, gli strumenti attraverso i quali raccogliere un insieme cospicuo di dati strutturati con metodologie continuative, programmate e regolate. Un efficace strumento per generare un solido pattern di dati durante un lungo periodo di tempo. Monitorare l’andamento di un valore, valutare il grado di aderenza a una terapia e gestire eventuali effetti collaterali in modo sicuro e affidabile.

Un esempio di tale utilizzo è lo studio del 2017 svolto su 85 italiani affetti dalla malattia di accumulo lisosomiale di Anderson Fabry, grazie al contributo di Caregiving Italia, ora parte di Healthcare Network Partners. I risultati raccolti durante il periodo di home therapy, di un anno e undici mesi, hanno riportato:

– Un aumento di aderenza al trattamento dei pazienti al 100% (primaperdevano 1 infusione su 10) ;

– L’incremento della qualità di vita del paziente.

Questo studio, tra le altre cose, è stato utile per affermare il modello dell’home-therapy come good practice in molte regioni italiane.

Strutturare una raccolta dati che possa generare evidenze scientificamente valide e utili rappresenta un mezzo per prendere decisioni a vantaggio di tutti gli attori: dai pazienti – per una migliore e corretta terapia, all’industria – per dimostrare il valore apportato, alle istituzioni – in ottica dell’implementazione del cost-saving.

Il ruolo del supporto emotivo nella gestione digitale delle cronicità

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Scopri che tuo figlio è affetto da una malattia cronica e non sai come riorganizzare il nuovo assetto famigliare.

A 45 anni ti viene diagnosticata una patologia rara e devi cambiare lavoro per trovarne uno più consono alla tua situazione attuale.

Saper valutare le emozioni, i cambiamenti e lo stress correlati al vissuto della malattia è imprescindibile per migliorare la qualità di vita del paziente.

In un contesto, come quello italiano, in cui le malattie croniche sono in crescita interessando quasi il 40% della popolazione, non si può trascurare un aspetto fondamentale: l’impatto psicologico. Le malattie croniche rappresentano una condizione che dura nel tempo e che richiede un processo di adattamento, un ruolo attivo e consapevole del paziente stesso nonché il sostegno di caregivers e healthcare professionals, come sottolinea il documento che illustra il ruolo dello psicologo nel piano nazionale delle cronicità .

A partire dalla diagnosi, quando il paziente e il suo contesto socio famigliare si trovano a dover gestire la terapia e il decorso della malattia, il supporto dello psicologo si rivela fondamentale.

La diagnosi di una malattia cronica  determina una situazione traumatica, sia nel paziente che nei suoi caregivers, perché́ solitamente è inaspettata, spesso difficile da controllare. Convivere con una patologia cronica comporta grandi cambiamenti nella vita di tutti i giorni soprattutto per quanto riguarda la gestione dei propri interessi o delle attività che abitualmente si praticano.

Lo psicologo ha il compito di fare da collante tra tutte le dimensioni in campo , aiutando il sistema medico-pazienti-caregivers. Questa figura può aiutare i medici nella comunicazione del piano terapeutico, il paziente nell’elaborazione dei vissuti emotivi legati alla malattia, i familiari nel fronteggiare i risvolti pratici ed emotivi della quotidianità.

Il supporto psicologico si digitalizza

 Gli smartwatch, i wearable, i cellulari e le applicazioni stanno diventando una parte importante della quotidianità dei cittadini e circa il 41% degli italiani utilizza un dispositivo indossabile per il monitoraggio dello stile di vita ,il 52% usa un’app di messaggistica per chiedere al medico di fissare o spostare una visita e nel 47% dei casi per comunicare lo stato di salute.

In un contesto sanitario che sta implementando percorsi di cura supportati dalla tecnologia come si integra l’aspetto umano del supporto emotivo e psicolgico?

Attraverso strumenti come Skype, live chat e dispositivi sempre connessi anche il modo di fare consulenza psicologica ha subito un mutamento. Esistono infatti applicazioni , denominate in modo generico MHapp, dove MH sta per mental health, che forniscono un supporto psicologico spesso antecedente all’incontro con il proprio psicologo. Esistono anche dispositivi che permettono un contatto on demand con lo psicologo come il dispositivo Capsuled dell’azienda israeliana Vaica, ormai presente anche nel mercato italiano.

Per capire ancora meglio in che modo il ruolo del supporto emotivo si inserisce in un contesto sanitario sempre più digitalizzato abbiamo ftto qualche domanda a Francesca Alboré psicologa, psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Centrata sulla Persona e formata in EMDR.

 –Qual è il peso della componente del supporto psicologico nella gestione delle cronicità e nei programmi di supporto al paziente?

Per rispondere a questa domanda è importante ricordare il ruolo della componente emotiva in una patologia cronica che, per sua natura, accompagna la persona per tutta la vita.

La diagnosi segna un momento particolarmente delicato e merita uno spazio di sostegno dedicato in cui è fondamentale sostenere la persona alla ricerca di un nuovo equilibrio. Vissuti come tristezza, impotenza, rabbia e ansia sono difficilmente riconosciuti dal paziente o comunicati all’esterno, spesso per vergogna o paura di diventare motivo di preoccupazione per le persone care.

Uno dei primi meccanismi di difesa, ad esempio, è quello di identificarsi come “malato a vita”, oppure al contrario di evitare con tutte le forze questa etichetta, comportandosi come se la malattia non esistesse, mettendo così a rischio la propria salute.

Bisogna anche sottolineare che il lavoro di supporto psicologico non può e non si deve fermare soltanto al paziente, dal momento che la patologia coinvolge l’intero sistema di cui fa parte. Una parte rilevante del supporto psicologico è perciò rivolta alla rete familiare.

Ecco perché il supporto psicologico è così importante quando ben integrato all’interno dei programmi di supporto al paziente: può sostenere efficacemente il paziente ed i caregiver, fornendo uno spazio di ascolto individuale o condiviso per instaurare i necessari nuovi equilibri o ristabilire quelli perduti.

All’interno dei programmi di supporto grande spazio ha inoltre il lavoro sulle risorse personali, fondamentale per sviluppare, attraverso l’acquisizione di nuove abilità, l’adattamento alle nuove condizioni e la costruzione di nuove abitudini.

Infine, il supporto psicologico fornisce al medico informazioni importanti sull’impatto della malattia e delle terapie sul paziente, offrendo una prospettiva importante rispetto all’aderenza alla terapia.

–L’aumento crescente della componente digitale: una minaccia o un’opportunità?

La relazione è un perno imprescindibile, e non può essere sostituita, ma direi che l’aumento crescente della componente digitale possa rappresentare un’opportunità.

Bisogna considerare la possibilità di uno smarrimento iniziale, dovuto al timore di perdere il contatto umano o di doversi affidare ad un oggetto esterno ma dobbiamo ricordare che queste componenti mirano specialmente ad incrementare la quantità di dati raccolti e a facilitare la comunicazione e, se usati correttamente, possono rappresentare un’ulteriore risorsa per un percorso di salute centrato sulla persona e costruito sui suoi specifici bisogni.

Si va dalla possibilità di effettuare un colloquio attraverso una videochiamata fino alla realtà virtuale che consente, in un ambiente protetto e sicuro, di confrontarsi con stimoli minacciosi (ad esempio un animale per una fobia specifica o una platea di persone per la fobia sociale) oppure di operare con finalità riabilitative (ad esempio per lavorare sulle aree di funzionalità compromesse dall’avanzare del deterioramento cognitivo).

La vera sfida è essere al passo con i tempi, integrando queste nuove modalità all’interno del percorso di terapia senza mai perdere di vista gli obiettivi del processo e la relazione con il paziente.

Quando il supporto si fa viaggiando

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“Domani scade il bando per il tirocinio in Spagna, vorrei davvero andarci, ma i miei sono preoccupati per la terapia e anche io non so come fare”.

“Voglio studiare cinema a Roma, ma i miei sono preoccupati che stando lontano da casa io non possa curarmi come devo”

 “Quest’anno i miei amici hanno deciso di fare la scuola di surf in Portogallo un mese prima di iniziare a studiare, ci va anche Alessio… spero solo che la dottoressa mi permetta di farlo”.

Voglia di viaggiare, di non avere confini per svolgere il proprio lavoro e per studiare o semplicemente per potersi godere una vacanza come i propri coetanei. Questi sono solo alcuni fotogrammi della vita dei giovani: aperti al mondo, pronti a viaggiare e consapevoli delle tante opportunità che li aspettano fuori dalle mura di casa. Questi sono i pensieri che caratterizzano anche le persone affette da patologie croniche: dietro la cartella clinica che riporta i dosaggi dei farmaci, la calendarizzazione delle assunzioni e gli esami del sangue, ci sono prima di tutto delle persone che non vogliono vivere una vita in funzione della terapia, ma vogliono la flessibilità di quest’ultima in funzione delle loro scelte.

Il mondo healthcare si prende carico anche di queste esigenze? Come riporta il Piano Nazionale delle Cronicità caregivers, dottori, infermieri e tutte le altre figure che fanno parte del processo di cura del paziente, dovrebbero svolgere un’analisi integrata dei bisogni globali del paziente per garantire un processo di cura come un vero e proprio accompagnamento fatto di percorsi integrati, personalizzati e dinamici.

In questo contesto i Programmi di Supporto al Paziente possono avere un ruolo cruciale nell’analizzare le necessità dei pazienti per offrire loro percorsi di cura flessibili, che si adattano perfettamente alle loro esigenze, anche quelle di mobilità.

Le malattie croniche aumentano, insieme alla voglia di viaggiare

In Italia le malattie croniche sono in crescita. Secondo quanto riportato da AdnKronos, queste patologie l’anno scorso hanno interessato quasi il 40% della popolazione della Penisola per un totale di 24 milioni di italiani, con 12,5 milioni affetti da multi-cronicità. Il dato è in aumento.

In contemporanea, però, l’Italia si è posizionata sul podio dei Paesi europei con il maggior numero di giovani che decidono di prendere la valigia e partire. Alla domanda “hai già viaggiato da adulto?” il 97% risponde positivamente: si tratta del dato più alto, eguagliato solo dai giovani spagnoli.

Negli ultimi anni, oltre al numero di viaggi che i ragazzi svolgono per divertimento, stanno crescendo anche gli studenti che decidono di partire per completare la propria carriera universitaria con un’esperienza di qualche mese all’estero. Solo nel 2017, sono stati 36.000 gli studenti che sono partiti dagli atenei italiani per un’esperienza Erasmus sia per studiare in un’altra nazione che per svolgere un periodo di tirocinio in un’azienda estera.

Il tema della cronicità e della necessità di viaggiare dei pazienti è un punto cruciale dell’evoluzione dei programmi di supporto al paziente.

PSP: ascoltare e programmare per viaggiare

Anna ha 24 anni e quando era alle elementari le è stata diagnosticata una malattia rara da accumulo lisosomiale. Da allora, ogni settimana svolge la terapia enzimatica a casa, grazie al programma di supporto al paziente. L’anno prossimo vorrebbe svolgere un master in Germania per un semestre, in uno dei centri di ricerca più all’avanguardia d’Europa. Non vuole rinunciare a questa opportunità e insieme al suo medico e al suo service provider imposta un piano per organizzare la sua partenza.

Il caso di Anna rappresenta il prototipo di una delle innumerevoli storie di giovani pazienti che come lei sentono il bisogno di potersi spostare. Gli operatori del mondo healthcare hanno iniziato a studiare proposte flessibili di percorsi di cura personalizzati sulle esigenze dei più giovani sempre più in mobilità.

Se la terapia si sposta all’estero il primo passo è quello di garantire nel paese di destinazione la presenza -grazie a partnership certificate – di provider che garantiscano gli stessi standard di qualità e sicurezza mediante personale qualificato e formato secondo standard definiti. Laddove sia necessario è fondamentale organizzare il trasporto del farmaco: spesso i pazienti devono risolvere il problema di trasportare terapie che devono essere mantenute a temperatura controllata. In questi casi il service provider deve organizzare il trasporto e la consegna dalla Farmacia dispensatrice italiana fino al luogo di destinazione.

Permettere ai pazienti di vivere appieno le loro vite senza rinunce consente di vincere l’idea che le cronicità possano determinare il declino di aspetti della vita come l’autonomia, la mobilità e la vita di relazione con il conseguente aumento di stress psicologico.

Studiando i bisogni reali del paziente e unendo competenze sanitarie, logistiche e le nuove opportunità fornite dalle tecnologie é possibile creare un supporto flessibile e sempre al passo con i nuovi bisogni dei pazienti.