Intervista a Maria Cristina Lavazza, experience designer

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Si sente sempre più spesso parlare di User experience, ci puoi spiegare esattamente cosa si intende con questo termine?

È il modo in cui ognuno di noi reagisce alle sollecitazioni esterne, qualsiasi esse siano.

In realtà definire esattamente cosa significa esperienza è davvero complesso. Un tempo l’esperienza consisteva nel vivere o fare interazioni molto semplici: se le nostre nonne stavano male andavano dal medico che gli dava un farmaco direttamente dal suo studio, se volevano un abito nuovo andavano dalla sarta, o nella merceria di zona, per scegliere stoffa e modello.

L’interazione era facile, diretta, lineare: ad un bisogno corrispondeva un’azione unica e una risposta più o meno scontata.

Oggi i nostri bisogni si sono moltiplicati di pari passo con la complessità dell’offerta: possiamo scegliere. Possiamo scegliere dove e come fare le cose, ma soprattutto quali elementi combinare per vivere a pieno la nostra esperienza. Perché l’altro elemento chiave con il quale misurarsi nella progettazione di esperienze complesse è l’impossibilità di standardizzarle. Le esperienze sono personali e ognuno le vive in maniera unica.

Dunque la mia personale esperienza di acquisto online e di assistenza può essere molto positiva, per un altro quel piccolo ritardo nella risposta può trasformare la sua esperienza in un’inefficienza da urlare sui social. Sì, perché le esperienze negative hanno il potere di attaccarsi alla nostra memoria in maniera indelebile. E questo vale per qualsiasi esperienza: dall’acquisto, alla cura, al tempo libero, alla mobilità. In altre parole siamo tutti immersi in migliaia di esperienze con realtà esterne (personali, sociale, pubbliche, private) di cui non ne percepiamo l’influenza.

 

User experience e programmi di supporto per il paziente, come si possono combinare?

Dominare un’offerta così sfaccettata è davvero difficile, se poi si toccano temi sensibili come la salute e le emozioni delle persone progettare esperienze positive diventa funambolico. Anche per questo la parola “esperienza” va declinata: in ambito clinico e farmaceutico dobbiamo parlare di “Patient experience” che comporta l’analisi e la valutazione di elementi in più rispetto alla più tradizionale user experience. L’approccio di esplorazione dell’esperienza del paziente sta cambiando moltissimo anche per questo dovremmo parlare di patient centered design, ovvero della progettazione che mette realmente al centro il paziente. Fino ad oggi la ricerca del Pharma si è concentrata sulla relazione tra paziente e farmaco ascoltando primariamente clinici o centri specializzati. Ma il paziente non è la sua malattia e la sua esperienza è il prodotto del suo essere tante cose, ovvero dell’essere “persona”.

I programmi a supporto dei pazienti fanno proprio questo, integrano l’esperienza di cura permettendo alle persone di vivere meglio il periodo, più o meno lungo, del trattamento. Il farmaco diventa parte di un puzzle più ampio.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito a una velocissima digitalizzazione dei servizi, come si è organizzato il patient centered design?

Il digitale ha sicuramente aiutato la crescita di servizi più efficaci e mirati rispetto alla patient experience. Ma bisogna prestare attenzione ad un tema molto diffuso, non solo in campo medico, che è quello di pensare alla tecnologia come alla panacea di tutti i mali. L’esperienza del paziente ci dice proprio questo: non tutti i pazienti sono uguali, i pazienti vivono reazioni ed emozioni diverse e non esistono soluzioni per tutte le stagioni.

Scegliere una strada rispetto ad altre deve essere il prodotto di una ricerca sui pazienti, condotta a 360 gradi sulla loro vite e solo allora si può pensare di progettare una app, un drone o un semplice sticker da frigo. L’esperienza va sempre ritagliata sulle persone e i loro scenari. Un po’ come quello che stiamo vivendo oggi: il distanziamento sociale non rende semplice esplorare l’universo quotidiano di altre persone, ancora di più se ammalate. Bisogna trovare nuove soluzioni, e qui il digitale ha aperto spazi infiniti per fare ricerca a casa dei pazienti, farcendo girare video o tenendo diari da mobile.

Niente più focus group, ma un ascolto attivo e profondo di persone con le loro storie, anche se necessariamente a distanza. Tutto questo è patient experience design.

 

L’utilizzo di PROM e PREM nei Patient Support Program

PROM e PREM

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Come si può valutare in modo oggettivo la qualità dell’assistenza? Quali possono essere i mezzi per monitorare l’andamento del patient journey e ottimizzare i servizi forniti?

 

Sia i Patient-reported outcome measures (PROM) che i Patient-reported experience measures (PREM) possono essere dei validi strumenti per misurare rispettivamente il punto di vista dei pazienti sul proprio stato di salute e la loro esperienza durante le cure.

I PROM sono delle misure di esito riportate direttamente dal paziente utilizzate per indagare la percezione che quest’ultimo ha sul suo stato di salute, il livello percepito di menomazione, la disabilità e la qualità della vita correlata alla salute: valutano, per esempio, i sintomi e il dolore, l’ansia, il livello di depressione e il grado di affaticamento. I PREM invece, sono questionari che misurano la percezione dei pazienti rispetto alla loro esperienza durante la ricezione delle cure. Possono considerare aspetti quali la qualità della comunicazione, il supporto ottenuto per la gestione delle condizioni a lungo termine o ancora il tempo trascorso in attesa di ricever l’assistenza e la facilità di accesso a quest’ultima.

Sia i PROM che i PREM sono scale certificate che possono avere un’applicazione più generica oppure possono essere strutturati per indagare gli outcomes di una specifica famiglia di patologie.

 

 

I PSP come ambito di applicazione dei Patient-reported outcome/experience measures

 

Da anni utilizzati in sanità per la valutazione delle cure ospedaliere e nell’ambito dei trial clinici, i PREM e i PROM hanno trovato largo impiego negli studi di Real word evidence e anche all’interno dei Patient Support Program possono assumere una valenza strategica, per vari aspetti, quali:

  • Dimostrare il valore del PSP stesso ed essere quindi in grado di comunicarlo in maniera oggettiva agli Specialisti per fornire loro strumenti di valutazione che monitorano l’andamento del trattamento;
  • Ottimizzare i servizi forniti e ridisegnare il patient journey secondo le aspettative e i need dei pazienti;
  • Nello specifico dei PREM, per costruire un benchmark tra i diversi provider di PSP fondato su dati oggettivi.

In merito all’ultimo punto ci sono PSP di monitoraggio che prevedono l’utilizzo di scale, come la Morisky o l’ARMS, che consentono al Clinico di valutare in maniera oggettiva l’aderenza al trattamento. Esistono anche scale quali la PHE (Patient Health Engagement) che, utilizzate nell’ambito di PSP di training, consentono di personalizzare l’assistenza sulla base del coinvolgimento del paziente nella gestione della propria terapia. O ancora, vi sono altri questionari come il EQ-5D che consentono di misurare la qualità di vita percepita dal paziente nel corso del trattamento.

Healthcare Network Partners ciclicamente ogni due anni realizza delle analisi di patient-satisfaction; in una di queste analisi è emersa una lacuna nel servizio di assistenza durante i periodi in cui il paziente è in viaggio. Solo così è stato possibile sperimentare una componente di programma che ora consente ai pazienti in vacanza o in trasferta per lavoro di ricevere il trattamento esattamente come al proprio domicilio.

 

 

PREMs e PROMs, limiti e confini da considerare

 

Sebbene l’utilizzo di queste scale possa rappresentare un’importante opportunità per il mondo healthcare e non solo, è necessario considerare alcuni aspetti per evitare di incappare in errori nella raccolta dei dati e per attenersi alla normativa di riferimento.

In primo luogo, affinché i PREM e i PROM possano avere una loro validità, devono prevedere una modalità di somministrazione e raccolta del dato che non condizioni il paziente, quindi privo di bias. Inoltre, l’utilizzo di queste scale all’interno dei PSP deve essere coerente agli scopi del programma di supporto e non può costituire la base per degli studi osservazionali, regolati da differenti procedure e sottostanti alla normativa sulla privacy in vigore.

Con consapevolezza dei rischi, ma soprattutto delle opportunità legate all’utilizzo di questi strumenti, anche nell’ambito dei Programmi di supporto al paziente nel panorama sanitario italiano, la tendenza è quella di incrementare gli investimenti nei PROMs e nei PREMs per implementare validati metodi di raccolta dei dati a livello aggregato e conseguentemente riuscire a valutare e valorizzare tali strumenti nell’ambito dell’assistenza sanitaria fornita.

 

 

 

Covid-19, la sfida di HNP per tutelare la salute del proprio team e dei pazienti supportati

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Come si può garantire la business continuity salvaguardando la salute dei lavoratori e dei loro assistiti?

In ambito sanitario, rispondere a questo interrogativo significa trovare il modo di continuare a fornire i servizi essenziali mettendo in atto le possibili azioni volte a mitigare i rischi.

Per questo i provider di programmi di supporto devono essere allo stesso tempo veloci e compliant nell’adattare i protocolli di sicurezza necessari per salvaguardare i propri healthcare professionals, i pazienti e i loro caregivers.

Linee guida il più possibile chiare e una comunicazione efficace e continua. Sono questi i due pilastri su cui HNP ha basato la sua strategia garantendo l’erogazione di programmi di supporto al paziente durante il periodo di lockdown e nei mesi successivi.

 

Resilienza e comunicazione quali linee guida per garantire la continuità assistenziale

 

Healthcare Network Partners ha da subito affrontato i rischi connessi alla pandemia attuando protocolli e definendo linee guida che consentissero ai propri operatori di proseguire la loro attività sul territorio in sicurezza. Una forte attenzione sull’utilizzo di adeguati DPI, la formazione e la sensibilizzazione rispetto alle procedure degli operatori, lo sviluppo di canali di comunicazione con i pazienti, favorendo lo smart working e il supporto a distanza dove possibile ha garantito la continuità assistenziale che oggi più che mai ricopre un ruolo essenziale in ambito sanitario.

Un gruppo di professionisti specializzati in diversi ambiti, in un processo di miglioramento continuo, ha unito le competenze per delineare strategie integrate da attuare tempestivamente e, grazie al confronto e alla continua raccolta di feedback dagli operatori, si è proceduto a modificare e adattare i protocolli per prevenire e rispondere al meglio allo stato di emergenza cercando di rafforzare ove possibile la resilienza dell’organizzazione.

La comunicazione, poi, ha giocato un ruolo fondamentale in questi mesi. La comunicazione interna è stata volta sin dalle prime settimane a responsabilizzare i propri operatori sottolineando l’importanza del rispetto dei protocolli e delle disposizioni che individuano nell’attento utilizzo dei DPI necessari da parte sia degli operatori sia dei pazienti uno degli aspetti fondamentali, aumentando la consapevolezza sulla prevenzione dei rischi.

L’ impegno collettivo – che vede operatori e pazienti farsi carico delle proprie responsabilità è indirizzato verso un unico obiettivo: quello di garantire la continuità assistenziale tutelando la salute di tutti. Proprio questo ha permesso di superare il rischio di irrigidire il servizio, rafforzando quel rapporto umano e di fiducia tra operatore e paziente che da sempre caratterizza i programmi di home treatment.

Al fine di favorire il benessere degli operatori chiamati a lavorare in situazioni di crescente stress è stato attivato anche un supporto psicologico volto ad aiutare a gestire l’incertezza crescente.

Invece, la comunicazione esterna con gli stakeholder è stata determinante per mantenere e rafforzare un allineamento continuo rispetto alle scelte messe in campo durante questi mesi. In particolare, la comunicazione con l’autorità sanitaria è stata gestita per facilitare il tempestivo rilevamento dei casi sospetti, quale elemento necessario per continuare a garantire la sicurezza di tutti, dentro e fuori la rete di HNP.

 

#NoidiHNPciVacciniamo

 

Affianco alle misure che regolamentano l’attività degli operatori sul territorio, HNP ha avviato una campagna di sensibilizzazione rivolta a tutti i dipendenti e collaboratori volta a sostenere la diffusione del vaccino quale mezzo sicuro ed efficace per prevenire l’influenza e per ridurne le possibili complicanze.

In tal senso Sara Masi, HR Manager di Healthcare Network Partners, sottolinea: “In questi mesi HNP sta cercando in tutti i modi di essere vicina ai suoi dipendenti e collaboratori, mettendo al primo posto la salute di tutti coloro che lavorano con un’attenta e puntuale mitigazione del rischio in rapporto a una gestione della continuità del servizio più capillare possibile”.  Inoltre specifica Chiara Musiani, HR Specialist: “Allo stesso tempo grazie all’introduzione dello smart working il personale della sede ha operato in sicurezza continuando a supportare gli operatori sul territorio. Anche se con qualche difficoltà iniziale, lo smart working ci ha permesso di sperimentale un nuovo modo di lavorare, focalizzato sugli obiettivi, che andremo a promuovere anche in futuro.”

 

Tutto questo ha permesso ad Healthcare Network Partners di rispondere prontamente anche all’incremento di lavoro conseguente alla richiesta di attivazione di nuovi programmi di supporto, senza mai smettere di mettere al primo posto la salute del proprio team, di tutti i collaboratori e dei pazienti.

COVID-19, il supporto domiciliare durante il lockdown: la parola ai clinici

 

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Ce lo raccontano Maria Alice Donati (SOC Malattie Metaboliche e Muscolari Ereditarie- AOU Meyer – Firenze), Serena Gasperini (Clinica Pediatrica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca, Fondazione Monza e Brianza per il Bambino e la sua Mamma) e Monica Cellini (U.O. Pediatria ad Indirizzo Oncologico Dipartimento Materno-Infantile Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico Modena).

Tre Specialisti, tre regioni differenti tra loro, tre storie molto diverse, ma con un denominatore comune: la valutazione sui programmi di Home Therapy durante il periodo di lockdown è stata positiva e la speranza comune è che si possano mantenere attivi al termine dello Stato di emergenza.

La Lombardia è stata una delle regioni più colpite dalla pandemia da COVID-19 ma è anche uno dei territori che ha reagito con più determinazione anche grazie a un’esperienza decennale nei programmi domiciliari.“Il contributo dell’Home therapy è stato fondamentale per la gestione di bambini e adulti affetti da malattie lisosomiali soprattutto in una regione largamente e pesantemente colpita come la Lombardia-sottolinea Serena Gasperini-. Non frequentare l’Ospedale in un momento critico soprattutto nei mesi di lockdowntra marzo e giugno è stata accolta come un sollievo dalle famiglie e mai come preoccupazione. La possibilità di avere a disposizione una terapia a casa ha notevolmente alleggerito il pesante fardello delle famiglie che già convivono con una malattia cronica e rara con dinamiche diverse: l’ingresso di una figura professionale infermieristica o medica dentro le mura domestiche “protette”col timore del contagio non è stata vissuta con diffidenza, ma come un’opportunità. Le famiglie e i pazienti si sono sentiti “curati” nell’accezione anglosassone di “take care” proprio in un momento in cui avere a disposizione personale sanitario era molto prezioso e ammalarsi (non solo per COVID) era diventato molto pericoloso per le difficoltà di accesso alle cure. L’Ospedale è stato vissuto come fonte di contagio primaria, luogo di malattia e ambiente a elevato rischio dai pazienti, ma anche dal personale sanitario che ci lavora. L’esperienza di supporto telefonico che il nostro Centro di malattie Metaboliche di Monza ha avuto con le famiglie dei nostri piccoli pazienti è stata molto positiva: in caso di necessità noi eravamo vicini e la possibilità di sentirci per ogni evenienza ha contribuito a contenere la paura, affinché non diventasse panico. La speranza è che la possibilità di accesso alla home therapy possa andare oltre la pandemia anche in Regioni dove sinora non era possibile effettuarla”.

 La terapia domiciliare è stata vissuta dai Clinici come uno strumento per tutelare la salute di pazienti e familiari, garantendo la continuità terapeutica e al contempo riducendo gli accessi in Ospedale.

L’Home Therapy è stata molto importante per la mia attività di gestione del paziente – racconta Monica Cellini-. Per me sarebbe stato estremamente difficile poter proseguire con regolarità la terapia infusionale del paziente senza esporre lui e i suoi cari a rischi di contagio. La mamma del paziente che seguivo si è detta molto contenta soprattutto perché l’infermiere che andava a casa sua era rispettoso delle regole igieniche previste e inoltre mi ha detto che avrebbe avuto molta paura se avesse dovuto portare il bambino in Ospedale per svolgere le terapie. Penso che quello che è successo debba essere un motivo di profonda riflessione per tutte quelle regioni che ancora non hanno recepito questa esigenza. Il Covid-19 ha mostrato quanto la terapia domiciliare possa essere preziosa per pazienti fragili come quelli che devono effettuare terapia sostitutiva salvavita”.

 Se in Lombardia l’attività di Home Therapy era attiva da anni, in Toscana l’avvio di programmi domiciliari ai pazienti è stata una novità dell’emergenza sanitaria.

“Più volte in precedenza avevo discusso in ambito regionale dell’importanza dell’Home Therapy, ma non era mai stata data l’autorizzazione per avviarla- spiega Maria Alice Donati-.  Prima ancora della determina AIFA, avevo fatto richiesta per attivare programmi domiciliari almeno per i pazienti particolarmente fragili e alla fine mi era stata concessa. In questo contesto i pazienti e le famiglie credo abbiano sentito non un “abbandono” alla terapia domiciliare, ma un essere accompagnati e comunque un lavoro in sinergia. Oggi, la maggior parte dei nostri pazienti sono passati all’Home Therapy e sono rimasti esclusi solo i pazienti che per caratteristiche cliniche non potevano effettuarla a domicilio secondo quanto scritto nella delibera AIFA. La riduzione dell’attività per le terapie enzimatiche sostitutive in ospedale ha consentito una miglior impiego delle risorse umane e una eccellente gestione dei posti letto soprattutto in termini di sicurezza e distanziamento, inoltre diverso impiego di risorse umane. L’emergenza covid ha portato in questo caso ad una esperienza fortemente positiva e sia i pazienti/famiglie che i medici sperano possa proseguire anche nel dopocovid”.

La possibilità di attivare tempestivamente programmi di home treatment su quasi tutto il territorio Nazionale si è rivelato sia per gli Specialisti che per i pazienti un modo per offrire un supporto concreto in un momento veramente complicato.

Ora l’obiettivo di molti attori del mondo Healthcare è quello di far comprendere anche alle regioni più restie all’attivazione di programmi domiciliari le loro potenzialità, per implementare i PSP a livello nazionale.

HNP, con l’Istituto Gaslini un accordo formativo ed educazionale per le patologie rare della coagulazione

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Sinergie tra attori del Sistema salute, formazione, aggiornamenti e training sono alla base di un’offerta di servizi al paziente di qualità, capaci di rispondere in modo integrato ed efficace alla sempre più complessa domanda di cura.

Per questo, Healthcare Network Partners ha stretto un accordo di collaborazione con l’Istituto Giannina Gaslini per attività di consulenze professionali a carattere formativo, educazionale e tecnico-scientifico nell’ambito delle patologie rare della coagulazione al fine di migliorare la qualità dei servizi offerti.

L’Istituto Giannina Gaslini di Genova è un noto Istituto di Ricovero e Cura a carattere scientifico che fin dalla sua fondazione ospita l’Università di Genova. Proprio per questa propensione alla formazione e per il team di professionisti altamente qualificati, HNP ha deciso di avviare una collaborazione che si strutturerà sia in programmi ed eventi formativi scientifici e training di approfondimento, ma anche attività di consulenza e revisione di materiali e procedure operative.

Per spiegare al meglio la natura e le caratteristiche di questa collaborazione, il dr Angelo Claudio Molinari Responsabile Centro di Emostasi e Trombosi dell’Istituto Gaslini, e Gianni Belletti, Country Manager di HNP, risponderanno ad alcune domande.

Alcune domande al dr Angelo Claudio Molinari:

-Per quanto riguarda l’Istituto Giannina Gaslini, quale è la peculiarità della sua offerta e quali sono le caratteristiche che lo contraddistinguono? 

L’Istituto Giannina Gaslini è un centro di ricerca assistenza pluri specialistico che concentra al suo interno altissime competenze in tutti i settori. Una particolare attenzione è sempre stata rivolta alle patologie della coagulazione. Infatti da diversi anni ormai è stata istituita una Unità Operativa, dedicata alle problematiche dell’emostasi a della trombosi, di cui sono responsabile. L’esperienza della ricerca internazionale viene costantemente riversata in pratica assistenziale di altissimo livello che non trascura la qualità di vita del paziente e della famiglia.

-Quale è il ruolo della formazione per lo sviluppo di servizi assistenziali idonei a rispondere alla sempre più complessa domanda di cura?

Si è visto crescere negli ultimi anni il concetto importante di personalizzazione delle cure, la cosiddetta medicina di precisione. Tutti gli attori coinvolti nell’assistenza del paziente oggi devono avere una profonda conoscenza della patologia, delle cure attuate, e dei risvolti anche non clinici, per esempio sul laboratorio, che le cure possono avere. La formazione, costantemente aggiornata, è quindi la base per la qualità delle cure anche domiciliari.

-In particolare nell’ambito delle patologie della coagulazione, come sono cambiate le necessità e i bisogni dei pazienti?

Abbiamo assistito negli ultimi anni a un balzo in avanti veramente importante nelle tipologie di cure che possono essere offerte ai pazienti con Malattie Emorragiche Congenite o acquisite; ho già detto della crescente importanza della personalizzazione della terapia, che in quest’ ambito traguarda alla personalizzazione della profilassi dei pazienti affetti da emofilia dopo l’avvento dei nuovi concentrati a emivita prolungata. In questo ambito riveste molta importanza l’esecuzione della farmacocinetica per ritagliare sul paziente uno schema di profilassi adeguato alle necessità cliniche. La disponibilità di assistenza domiciliare specialistica, che consente di eseguire con comodità del paziente e tranquillità del curante, che sa che tutto sarà svolto da persone esperte, aumentano la possibilità di personalizzazione della cura e quella di aumentare la qualità della vita del paziente e della famiglia. Naturalmente è importante che tutte le attività legate ai prelievi (la centrifugazione e il congelamento dei campioni di sangue destinati ai delicati test di coagulazione necessari per definire il profilo farmacocinetico del paziente) siano gestiti al meglio secondo stretti protocolli metodologici.Altri aspetti importanti, per le famiglie di questi pazienti, sono l’addestramento alla somministrazione delle terapie eseguito a domicilio senza doversi spostare e nelle ore più convenienti, e il supporto di un fisioterapista esperto in queste patologie a domicilio.

-Quali sono le principali sfide che dovranno affrontare i provider di programmi di supporto al paziente per rispondere a questi bisogni? 

Credo che la sfida principale sia quella della difficoltà di trasferire a domicilio del paziente determinate procedure che sono tipiche invece di attività in un centro specialistico ospedaliero e mi riferisco al prelievo di sangue, alla sua centrifugazione e congelamento così come la conservazione delle aliquote e infine consegna delle stesse al laboratorio secondo standard e parametri molto stringenti.

Tutte procedure che devono seguire protocolli e stretti criteri di qualità al fine di consentire quelle delicate analisi di laboratorio come i dosaggi del fattore VIII e del Fattore IX in maniera affidabile per favorire quella personalizzazione della cura di cui abbiamo parlato prima, ottimizzando l’utilizzo di prodotti estremamente avanzati.

 

Il punto di vista di HNP, due quesiti a Gianni Belletti: 

 -Perché per un provider internazionale di soluzioni per l’healthcare come HNP è importante stipulare una convenzione con un Istituto quale il Gaslini con un forte orientamento alla formazione?

La strategia di HNP è di progettare e gestire iniziative di valore per tutti gli stakeholders. Tale visione, soprattutto nell’ambito di patologie complesse, è ottenibile esclusivamente ponendo come primo requisito la qualità dei nostri progetti.

In questo senso l’Istituto Gaslini, con tutte le competenze di cui dispone, può fornire il supporto necessario per validare le procedure e i protocolli che la nostra direzione medica e i nostri lead infermieristici e fisioterapici producono. Inoltre, la presenza di ricercatori di fama internazionale nel team dell’Istituto Gaslini, ci consente di poter disporre delle migliori risorse per formare tutti i nostri operatori. Ulteriormente, HNP, pur essendo un operatore privato, ripone grande attenzione nello sviluppo di collaborazioni sinergiche con gli Enti Pubblici, le Università e i Centri di Ricerca.

-Quali sono le tipologie di training di approfondimento e le attività di formazione fondamentali per gli operatori di HNP?

All’interno del team di HNP operano differenti professionalità sanitarie (medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi) che sono impegnati in progetti che spaziano tra le più diverse aree terapeutiche (da quelle ultra rare alle cosiddette grandi cronicità). Conseguentemente, è necessario garantire un costante aggiornamento in merito alle nuove terapie disponibili e ai più recenti standard assistenziali.

Inoltre, riponiamo una grande attenzione a tutte quelle competenze che potremmo riassumere con il termine “soft skills” al fine di poter fornire ai destinatari dei nostri servizi un supporto professionale, ma al contempo capace di poter instaurare un rapporto empatico.

Drug Delivery, analizzarne l’andamento per comprendere le prospettive future

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Assicurare la continuità terapeutica, agevolare il paziente evitandogli costi legati agli spostamenti verso la farmacia, facilitare il lavoro delle farmacie e del SSN – sono solo alcuni dei vantaggi che uno strutturato servizio di consegna a domicilio della terapia può garantire. Ma cosa ci ha insegnato questa emergenza sanitaria? Quali sono gli aspetti della drug delivery da migliorare?

Durante i mesi di lockdown sono stati attivati numerosi programmi di drug delivery che evitassero alle persone fragili affette da patologie gli accessi alle strutture sanitarie per ritirare il farmaco alla farmacia ospedaliera.

Healthcare Network Partners ha avviato 7 progetti di consegna domiciliare del farmaco con qualche centinaio di pazienti assistiti e oltre 700 consegne effettuate.

Drug delivery, alcune difficoltà

Nonostante il 97% dei pazienti che hanno beneficiato del servizio di drug delivery gestito da HNP sia stato molto soddisfatto del servizio ricevuto e il 40% abbia manifestato di gradire una possibile continuità di tale supporto oltre il periodo emergenziale, avviare i programmi di consegna a domicilio dei farmaci si è rivelato difficile e spesso impossibile: rispetto al potenziale cluster di Enti che potevano essere interessati al progetto, circa l’80% ha scelto di non aderire.

Sin da subito alcune Regioni hanno respinto il supporto offerto da provider privati per paura che si potessero creare situazioni di iniquità tra pazienti con la stessa patologia, ma afferenti a terapie farmacologiche differenti. Altre ancora si sono organizzate in autonomia con la Croce Rossa Italiana, in collaborazione con Federfarma e Assofarm intensificando il servizio totalmente gratuito di consegna farmaci a domicilio a favore delle persone vulnerabili.

In merito a questo, Gianni Belletti, Country Manager di Healthcare Network Partners, sottolinea che: “Viste le necessità impellenti dettate dal periodo emergenziale, penso che anche queste Regioni avrebbero potuto attivare servizi di drug delivery supportati dall’Industria, beneficiando in questo modo di risorse aggiuntive (chiaramente fissando come di fatto gli compete le regole per realizzare tale supporto) da poter affiancare a quelle organizzate con la Croce Rossa Italiana. In questo modo si sarebbero resi disponibili maggiori opportunità per aumentare il perimetro delle patologie e/o dei pazienti a cui offrire tale supporto”.

Al contempo, non tutte le unità operative coinvolte hanno aderito ai programmi di drug delivery per timore di un incremento repentino del lavoro in un periodo già particolarmente critico a causa dell’emergenza sanitaria. “Per agevolare il più possibile le unità operative coinvolte, abbiamo proposto un servizio di ritiro personalizzato adattandoci alle esigenze delle singole realtà- prosegue Gianni Belletti-. Volevamo evitare che strutture già gravate da un’importante mole di lavoro dovessero adattare le loro routine operative alle esigenze dei diversi programmi di drug delivery”.

Inoltre, alcuni dei pazienti che avrebbero potuto far parte dei programmi di consegna domiciliare del farmaco hanno preferito non aderire e recarsi personalmente ai Centri Clinici di riferimento sia per reticenza nei confronti di nuove modalità di gestione della consegna dei loro farmaci, sia come occasione per evadere dalla serrata realtà domestica.

Le prospettive future della consegna a domicilio dei farmaci

Quante difficoltà hanno influenzato la sperimentazione di questo genere di servizio e che cosa può essere fatto in futuro nell’ambito della drug delivery?

Flessibilità, personalizzazione dei programmi, nonché capacità di ascoltare la voce delle Associazioni Pazienti sono alcuni degli ingredienti necessari per avviare in futuro servizi stabili e continuativi di drug delivery per un numero sempre maggiore di farmaci. “Senza lo stress e le pressioni dettate dalla contingenza emergenziale, sarebbe opportuno avviare un tavolo congiunto con tutti gli stakeholder direttamente coinvolti in questo genere di servizio -propone Gianni Belletti -. In questo modo si potrebbero analizzare le attività svolte durante la pandemia e riflettere su setting e logiche da implementare nei futuri programmi di drug delivery”.

Al fine di superare le titubanze legate ai supporti offerti dalle aziende farmaceutiche, si potrebbero stilare dei principi e degli standard funzionali a delineare quelle che possono essere i requisiti ritenuti necessari dagli Enti e dalle Amministrazioni come garanzia di efficienza da parte di chi offre il servizio di drug delivery.

Inoltre, in attesa di un’auspicabile armonizzazione legislativa che favorisca il passaggio di farmaci ospedalieri in distribuzione diretta, occorre un ripensamento di alcune modalità operative routinizzate verso modalità più flessibili e capaci di adattarsi al meglio a quelle che sono le reali esigenze dei pazienti.

 

 

 

 

 

Healthcare communication, quale futuro?

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Com’è cambiata la comunicazione di salute in questi mesi?

Il digitale ha soppiantato l’offline?

Nei mesi appena passati il mondo della Salute ha avuto un’esigenza chiara e precisa: informare tutti, nessuno escluso, su quali fossero le norme da tenere e i dispositivi da utilizzare per evitare il rischio di contagio da Covid-19. Il ministero della Salute ha utilizzato un media sempre molto caro agli italiani, la televisione, per veicolare campagne informative sui comportamenti da tenere e le buone pratiche da rispettare. I contenuti si sono stati resi fruibili sul piccolo schermo utilizzando uno strumento che viene riconosciuto come immediato e chiarificatore: l’infografica animata. Nonostante non si possano dichiarare abbandonate del tutto le pubblicità progresso vecchio stampo ci siamo ritrovati a memoria la sequela di informazioni che ci venivano narrate da una voce che accompagnava sequenze di icone animate, facilmente assimilabili dai nostri neurotrasmettitori e in maniera veloce e pulita.  Nelle farmacie come in molti esercizi commerciali, nelle sale d’attesa dei Centri Clinici o negli uffici che abbiamo piano piano ricominciato a popolare un fitto sistema di cartellonistica ad indicare “come comportarsi” ha soppiantato la segnaletica di emergenza ed è entrata a fare parte del nostro sistema visivo di codici. Tra le immagini più ricercate nelle principali banche di immagini online troviamo il social distancing, tra le icone maggiormente scaricate mascherine appoggiate alla faccia e mani nell’atto di essere pulite con un prodotto disinfettante. Questi simboli sono entrati in tempi rapidissimi a fare parte della nostra semiotica.

Verso una digitalizzazione della comunicazione

Nel mondo healthcare si è parlato di una forte spinta acceleratrice alla digitalizzazione dei servizi e dei prodotti, lo stesso processo è avvenuto anche per la comunicazione?

Aggirandosi per le sale d’aspetto dei Centri Clinici o negli ambulatori dei Medici di Medicina generale l’occhio nota subito qualcosa di diverso: le riviste sono sparite e le brochure informative sono diventate rari oggetti quasi d’antiquariato. La ragione è solo quella delle nuove disposizioni in termini di igiene e contatto? No.

Abbiamo passato tre mesi chiusi in casa, l’informazione ha avuto la necessità di passare per altri mezzi e ci ha raggiunti con landing page su cui siamo atterrati tramite sponsorizzazione sui media dove abbiamo trascorso le nostre ore, ci ha fatto suonare il telefono con notifiche su whatsapp mandate dal nostro Medico che ci inviava qualche contenuto digitale, è passata per chatbot inseriti nei siti dove siamo andati ad informarci, ha utilizzato le parole di qualche influencer che abbiamo seguito pedissequamente perché avevamo bisogno di sapere che sarebbe andato #tuttobene.

Una comunicazione orientata al paziente… e non solo

Questo non significa che abbiamo abbandonato gli strumenti offline, ed è stato giusto così: il digital divide è ancora un aspetto cruciale nella nostra società ed è necessario che l’informazione sia universale, soprattutto quando si tratta di salute. Che cosa ha significato questo nella pratica? Aumentare i poster appesi alle pareti nelle sale d’aspetto, inviare direttamente al domicilio materiali formativi utili per la comprensione e la gestione della patologia, utilizzare infografiche semplici, caratteri leggibili, simboli ormai universali. Nei focus group eseguiti a distanza per studiare la migliore maniera di veicolare le comunicazioni inerenti alcuni PSP molti intervistati hanno espresso una preferenza per lo strumento cartaceo indipendentemente dalla loro età o digitalizzazione informatica per un semplice quanto non scontato motivo: toccare le informazioni è diventato un privilegio in un momento in cui siamo stati separati dalla cose tramite schermi di tutti i tipi. Ricevere a casa un diario da compilare, un opuscolo da sfogliare è stato un modo per tenersi legati a quello che c’era fuori dalle nostre case.

Questo orientamento è valso solo per i pazienti e i loro caregiver? No nel bisogno di informazioni chiare e fruibili. È questo il caso degli operatori sanitari che hanno assunto un ruolo cruciale nel veicolare contenuti ma al contempo hanno avuto poco tempo a loro disposizione per dedicarsi a queste attività. E allora è stato importante rendere i materiali informativi immediati, in questo caso avvalendosi del canale online.

Nuovi messaggi – quali strumenti?

Sono state molte le Pharma che in questi mesi hanno messo a disposizione servizi di drug delivery domiciliare o di supporto emotivo; in questo caso i Clinici chiamati a favorirne la conoscenza tra i pazienti hanno ricevuto materiali informativi che inserivano in una immagine emblematica la call to action, rimandando poi a landing page specifiche tutte le informazioni di contesto. In questo modo il messaggio principale è arrivato in maniera chiara ed è stato facilmente condivisibile tramite smartphone, utilizzando la messaggistica istantanea o le e-mail.

E adesso che il lockdown è passato? Sebbene il digitale si stia rivelando un valido veicolo per l’informazione è sempre importante valutare il giusto mix di strumenti online e offline per creare una comunicazione che si rivolga ai destinatari d’interesse e che sfrutti i loro canali preferenziali.

 

 

L’uso dei chatbot nell’ healthcare

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In molti conoscono le peculiari capacità di Alexa, Siri e Google Home, i chatbot vocali più popolari attualmente in commercio. Ma in che modo le tecnologie alla base di questi strumenti possono essere applicate nel mondo healthcare?

Migliorare l’engagement del paziente, aiutarlo a superare alcune barriere tecnologiche e incrementare la sua aderenza terapeutica può essere più semplice con l’aiuto di queste particolari “simulatori di conversazioni” a cui sono applicati sofisticati meccanismi di apprendimento.

L’evoluzione delle chat testuali

Le chat sono uno strumento che esiste dagli albori della rete e che ha soddisfatto negli ultimi 40 anni il bisogno degli utenti di comunicare in maniera veloce, informale, diretta e real time.  Nel tempo l’incremento delle funzionalità, le molteplici modalità di interazione e la facilità di utilizzo ne hanno esteso l’adozione al mondo consumer con l’adozione pervasiva su tutti gli smartphone. In questa trasformazione si sono evoluti anche i metalinguaggi associati, passando da acronimi criptici e smiley testuali ad emoji che, sempre più spesso, costituiscono la conversazione stessa.

Al di là di queste evoluzioni è rimasta intatta la propensione al dialogo delle persone che anche in ambito sanitario apprezzano molto l’approccio conversazionale.

Da Eliza e A.L.I.C.E verso sistemi sempre più evoluti e pervasivi

ELIZA è il nome di quella che è stata, negli anni 60, l’antenata dei chatbot attuali ed è stata programmata da Joseph Weizenbaum per imitare una conversazione testuale con uno psicoterapista rogersiano. Negli anni ‘90 la sperimentazione è andata avanti fino a dare vita ad una seconda generazione di cui fa parte anche A.L.I.C.E., un chatter-bot dotato di un proprio linguaggio di programmazione attraverso il quale era possibile programmare le regole e gli argomenti della conversazione. L’evoluzione della tecnologia e della capacità computazionale ha portato la possibilità di interagire con sistemi sempre più evoluti e pervasivi nella nostra vita. Il costo ridotto di accesso a queste tecnologie ha fatto il resto.

Lo scenario attuale comprende:

  • chatbot testuali/vocali che, simulando una conversazione, pongono alcune domande predefinite e ne raccolgono le risposte con una logica ad albero;
  • chatbot testuali/vocali che provano a rispondere a domande aperte consultando il proprio archivio di contenuti e applicando sofisticati meccanismi di apprendimento.

I più popolari sono sicuramente Siri, Google Home, Alexa e chatbot vocali sviluppati da Apple, Google o Amazon che possono essere arricchiti di funzionalità per garantire la massima personalizzazione. L’adozione di questi sistemi è cresciuta molto nel tempo ed è stata usata sia come un nuovo canale di accesso a servizi esistenti o come un nuovo modo più efficiente di veicolare un servizio precedentemente svolto da un operatore umano.

I chatbot entrano a far parte del mondo healthcare

Negli ultimi mesi queste tecnologie sono state adottate da singoli Stati o da organizzazioni internazionali a supporto delle strategie di informazione e prevenzione per la pandemia legata al COVID-19 che non potevano essere gestite solo attraverso i più tradizionali contact center a causa dell’altissimo numero di richieste in un periodo molto breve. L’OMS, per esempio, ha reso disponibile un chatbot testuale accessibile da Whatsapp per avere informazioni validate su i numeri del contagio, istruzioni per la protezione individuale, risposte alle domande frequenti, consigli per il viaggio, etc. Anche i PSP provider ritengono i chatbot un valido strumento facilmente inseribile in un patient journey, sia perché riducono il divario di accesso ad alcuni servizi di natura più tecnologica, sia perché l’interazione vocale rende più coinvolgente e inclusiva la partecipazione di pazienti che, a causa della propria patologia, hanno difficolta di movimento o riduzione della vista. Alcuni dei casi d’uso già sperimentati con successo includono supporto all’aderenza terapeutica, erogazione di questionari legati alla qualità di vita o alla misurazione dell’engagement fino alla realizzazione di veri e proprio assistenti personali in grado di supportare il paziente. Per esempio, l’IA di Youper monitora e migliora la salute emotiva degli utenti con conversazioni personalizzate utilizzando tecniche psicologiche e man mano che gli utenti comunicano con il chatbot, quest’ultimo si perfeziona e si aggiorna. Nel 2017, invece, è Your.MD che ha ricevuto il prestigioso premio Unesco / Netexplo per la categoria “innovations that can improve society”. La peculiarità di questa piattaforma gratuita è che tenta di fornire delle diagnosi attraverso un controllo dei sintomi alimentato dall’intelligenza artificiale.

Questi e tanti altri gli esempi di chatbot usati in ambito sanitario che si integrano alle offerte healthcare per garantire ed erogare servizi di qualità e maggiormente responsive ai bisogni dei pazienti, con una particolare attenzione all’engagement dei pazienti e all’aderenza terapeutica.

 

 

Unmet needs nell’healthcare: cosa sono, come si rilevano e perché si analizzano

Tempo di lettura: 3 minuti

Quando si parla di unmet needs nel settore della salute è necessario distinguere tra quelli che riguardano la sfera medical e quelli che si focalizzano sul social care: i primi riguardano il bisogno clinico e di supporto funzionale, i secondi i bisogni ancillari alla terapia per i cui i programmi di supporto al paziente possono rappresentare una risposta.

Tecniche di rilevazione

La rilevazione degli unmet needs dei pazienti si basa sia su metodologie quantitative che qualitative utili, prima per delineare e poi per classificare, quelli che sono i bisogni e le aspettative dei pazienti durante i principali touchpoints della loro journey. Si parte dall’analisi degli “existing data”, su cui è possibile impostare un’osservazione più estensiva ed esaustiva prima di rilevare su un nuovo campione di dati ancora da acquisire.

Per individuare le aree di bisogno da indagare e in modo particolare i touchpoints su cui concentrare la ricerca più approfondita, vengono utilizzati in primo luogo degli strumenti qualitativi quali, per esempio, il social listening, le interviste libere e semistrutturate o ancora le ricerche osservazionali sul campo per le quali sono gli stessi ricercatori a calarsi personalmente nella quotidianità dei pazienti. Il social listening, in particolare, permette di monitorare le conversazioni online. I blog delle associazioni pazienti, le relative pagine Facebook e altre forme di commento degli users, rappresentano una fonte importante di informazioni, utile agli attori del settore healthcare per delineare necessità non sempre riscontrabili in altre tipologie di indagine.

Anche le interviste libere o quelle semi-strutturare sono un ottimo modo per identificare gli unmet needs dei pazienti; tramite un approccio semi formale, è possibile individuare i punti emblematici su cui impostare un’indagine più approfondita.

Una volta condotta la prima indagine sulle aree di bisogno è importante proseguire con un’attività di ricerca quantitativa, che ha la funzione di validare quanto emerso precedentemente.

Tra i vari strumenti la survey è una dei più utilizzati. Associazioni di parole positive e negative con la malattia, quesiti che permettono di raggruppare le difficoltà nella gestione della terapia, nonché domande che esplicitamente richiedono l’opinione del paziente sui servizi a lui indirizzati, sono solo alcuni dei possibili interrogativi che vengono posti durante i questionari.

Ma al termine di un processo così strutturato qual è il deliverable? Quali sono gli obiettivi che sottendono questa attività di analisi?

Unmet needs, il ruolo del Sistema Sanitario e dell’Industria

Gli obiettivi sono molteplici e si possono analizzare dal punto di vista di chi decide di portare avanti questa analisi.

Perchè il Sistema Sanitario Nazionale è interessato a rilevarli?

Perché sono proprio i bisogni degli utilizzatori che devono guidare gli investimenti regionali in servizi per la Salute. Valutare se per un paziente cronico è più utile una facilitazione all’accesso presso il Centro Clinico di riferimento o una più fluida e accessibile fruizione dell’offerta del proprio Medico di medicina generale, è fondamentale per comprendere l’opportuna allocazione delle risorse in campo sanitario.

E l’Industria?

È sulla base degli unmet needs di pazienti e medici che è definita un’efficace strategia di servizio, che sappia generare valore per gli users e consenta all’Industria di marcare il proprio posizionamento ottimizzando la creazione di servizi pubblici e privati in campo sanitario.

L’esperienza di Healthcare Network Partners

 In questo ambito si inserisce l’indagine svolta da HNP su un gruppo di pazienti affetti da malattia da accumulo lisosomiale coinvolti in un programma di home therapy.

In primo luogo sono state individuate le aree di bisogno da indagare focalizzandosi sui touchpoints da approfondire con tecniche quantitative.

In merito alla tecnica utilizzata, l’intervista de visu semi strutturata con gli infermieri è stata utile per ottenere indicazioni rispetto al vissuto dei pazienti tenendo conto di quanto sia importante la narrazione di malattia attraverso un facilitatore che ha accompagnato alcuni dei momenti più emblematici della journey.

Affianco a questo, sono state condotte sia delle interviste libere ai pazienti con un’osservazione più qualitativa, sia un questionario per analizzare in modo più sistematico i bisogni individuati.

I risultati dell’indagine hanno permesso di ottenere una scala dei principali bisogni dei pazienti che rappresentano la base solida e concreta su cui strutturare e innovare programmi di supporto in linea con le loro esigenze.

Strutturare uno studio sugli unmet needs rappresenta una valida opportunità di mettere in campo soluzioni innovative e su misura in ogni fase del patient journey.

 

PSP, la New Normal nel Supporto al Paziente

Tempo di lettura: 3 minuti

 In che modo il mondo healthcare potrà rispondere ai bisogni emergenti di quella che molti definiscono come la “nuova normalità” a seguito della fase acuta dell’emergenza sanitaria?

Come Steve Brown (autore di The Innovation Ultimatum: How Six Strategic Technologies Will Reshape Every Business in the 2020s) sottolinea rispondendo ad alcune domande del giornalista di Forbes: “We are a resilient, adaptable, and innovative species”.

Come si applica tutto ciò al contesto sanitario? Quali saranno quindi le soluzioni introdotte dai provider internazionali per costruire programmi di supporto al paziente “resilienti, adattabili e innovativi” rispetto al nuovo scenario post emergenza? Come sta evolvendo il concetto di PSP in questa fase transitoria?

New Normal in ambito sanitario

Distanziamento sociale, protocolli per una corretta igiene, utilizzo dei DPI e piani di gestione delle emergenze sono alla base di quella che è la transizione verso la “nuova normalità” del sistema sanitario dei prossimi mesi.

I diversi attori dell’healthcare dovranno collaborare per creare un metodo coordinato di utilizzo delle strutture ospedaliere, ma soprattutto di gestione delle cronicità. Prese in carico, terapie e follow-up saranno gestite sempre più con un mix equilibrato e consapevole di telemedicina e visite face-to-face.

Anche i sistemi informativi e la digitalizzazione potranno offrire vantaggi significativi nell’erogazione delle cure per garantire l’accessibilità sia lato Clinico al monitoraggio da remoto dei proprio assistiti, sia lato paziente ai consulti con il proprio Specialista di riferimento.

COVID-19, i PSP prima e durante l’emergenza

Drug delivery, home therapy, training, monitoraggio e telemedicina: le sfide da affrontare per i provider di programmi di supporto al paziente in questo periodo non sono state poche. Per rispondere in modo strutturato e integrato ai bisogni emergenti, grazie alla user experience e a un attento ascolto dei pazienti, i provider hanno pensato, progettato e integrato mix di componenti.

Tra questi, per garantire la continuità terapeutica e per limitare il rischio di contagio riducendo gli accessi non necessari al Centro, Healthcare Network Partners ha avviato numerosi progetti di Drug Delivery per recapitare i farmaci direttamente al domicilio del paziente. Prima della pandemia, questo genere di PSP non era molto diffuso, ma con il lockdown questa attività si è dimostrata fondamentale per garantire la continuità terapeutica.

Per quanto riguarda l’home therapy, è stato necessario cambiare alcune modalità rendendole a distanza sia nella raccolta delle informazioni sia nell’interazione con gli utenti del servizio. In particolare, nonostante il valore imprescindibile della presa in carico del paziente con un incontro di persona al Centro Clinico, la visita è stata trasformata in un teleconsulto con il Medico Specialista ed è stata affiancata da una videochiamata al primo accesso domiciliare tra il Medico di programma e il paziente.

Nelle Regioni che prima del lockdown non consentivano l’attivazione di PSP, durante il periodo emergenziale, HNP ha strutturato, avviato e reso disponibile in poche settimane diversi Programmi di Supporto al Paziente, applicando gli standard di qualità di servizio già presenti nelle altre regioni, con una vera e propria logica ready to go.

Anche i programmi di training hanno subito delle variazioni: per alcune patologie ed esigenze specifiche, prima del periodo emergenziale, si era scelta la forma di addestramento domiciliare, ma durante il lockdown sono stati implementati sistemi di video visita.

Per quanto riguarda il monitoraggio, il lavoro di HNP è stato capillare. Grazie al suo network di professionisti, è stato possibile rendere i protocolli più flessibili. Si è deciso infatti di aumentare la frequenza delle chiamate con Specialisti di riferimento e di attivare sportelli di supporto emotivo dove non erano presenti, per alleggerire il carico emotivo di pazienti fragili accentuato dal peculiare momento di isolamento.

Infine, dettati dalla necessità di avere delle soluzioni standardizzate, affidabili e scalabili, ma affiancate a supporti personalizzati che tenessero conto del digital divide, sono stati avanzati dei progetti di Telemedicina.

Ed è proprio questo nuovo modo di pensare al supporto che servirà come base per la strutturazione di PSP sempre più in linea con i bisogni emergenti della “New Normal” in ambito sanitario.