Intervista a Silvia Stefanelli, avvocato specializzato in Health Service Legislation, e-Health e protezione dei dati

Privacy by design

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Approccio privacy by design e by default, secondary use dei dati e cultura della privacy nelle realtà aziendali: sono questi gli argomenti che approfondiremo grazie a Silvia Stefanelli, avvocato specializzato in Health Service Legislation, e-Health e protezione dei dati, che ha risposto alle nostre domande.

Perchè è utile tener conto di un approccio privacy by design e by default nella progettazione delle impostazioni a tutela dei dati personali previste per qualsiasi servizio sanitario?

 

L’articolo 25 del GDPR stabilisce che un processo che coinvolge il trattamento dei dati deve rispettare il principio della privacy by design e by default: ciò significa che nel momento in cui si decide di implementare un processo in cui si trattano dati si devono valutare sin da subito tutti gli aspetti privacy.

Questo principio che può apparire un po’ scontato, in realtà molto raramente viene applicato in maniera conforme al GDPR: solitamente, in ambito sanitario, il processo viene immaginato prima sotto il profilo clinico ed organizzativo e solo successivamente ci si pone il problema dei profili privacy.

Cioè solo in un secondo momento ci si interroga su quali siano i ruoli Privacy, quale sia la base giuridica del trattamento (aspetto fondamentale perché è ciò che rende il trattamento lecito), quali strumenti verranno utilizzati ed in generale sugli aspetti di rispetto del GDPR.

È chiaro che quando l’analisi dei profili privacy arriva a processo già disegnato si cercherà, inevitabilmente, di piegarla al progetto già in corso.

Proprio per evitare questo effetto, è fondamentale nel momento stesso in cui si pensa all’organizzazione del servizio e agli aspetti clinici, cominciare a interrogarsi anche sui profili privacy.

Questo non è l’unico aspetto, infatti, la conformità “by design e by default” al GDPR sta diventando un fattore competitivo sempre più interessante per le aziende che la attuano, poiché esse sono avvantaggiate a livello concorrenziale rispetto a chi non ottempera alla normativa.

Da un lato – sulla base di un accordo tra Consip e il Garante Privacy- i bandi pubblici per l’acquisto dei software medicali da parte delle strutture sanitarie dovranno prevedere specifici requisiti di compliance privacy “fin dalla progettazione e per impostazione predefinita”.

Specularmente, nel settore privato gli accordi per la fornitura di software – ma anche in generale le partnership e le operazioni societarie – includono già da tempo due diligence sempre più approfondite sulla data protection by design dei prodotti così come sull’intero sistema privacy delle organizzazioni.

Quanto è importante formare il personale in materia di trattamento dei dati sensibili e favorire la diffusione di una “cultura della privacy” all’interno delle realtà aziendali?

Io ritengo che la formazione del personale sia cardine per far funzionare quel sistema di gestione del dato che, nei fatti, è richiesto dal GDPR.

Anche il miglior sistema di gestione di un dato, dove non sia accompagnato dalla sensibilità e dalla consapevolezza del personale, rischia di non raggiungere gli effetti desiderati. Per questo credo che l’investimento delle aziende sulla formazione del personale con l’obiettivo di sensibilizzarlo rispetto al tema dei dati sia fondamentale.

È quindi imprescindibile che la formazione abbia un “taglio operativo”: non deve limitarsi a trasmettere i principi fondamentali del GDPR, ma deve spiegare – nella pratica e con un approccio “personalizzato” a seconda dell’organizzazione e dell’attività aziendale – cosa deve fare il personale e soprattutto cosa deve evitare per scongiurare il rischio che l’azienda sia oggetto di possibili sanzioni.

È possibile utilizzare i dati sensibili per finalità diverse e non previste dalla prestazione per cui sono stati inizialmente raccolti? Se si, in che modo?

Il cosiddetto secondary use – vale a dire il trattamento di un dato per una finalità diversa da quella originale per cui quel dato è stato raccolto – rimane uno dei temi più interessanti dell’intero regolamento soprattutto per le implicazioni che ha nell’ottica di riutilizzare le informazioni per alimentare la conoscenza, il progresso e, di conseguenza, potenziare lo sviluppo economico.

In quest’ottica certamente l’art. 5 prevede questa possibilità indicando espressamente alcuni settori, tra cui la ricerca scientifica, nei quali il dato può essere utilizzato per uno scopo differente da quello originario.

In ogni caso il secondary use per fini di ricerca scientifica sarà legittimo purché, in particolare:

  • vengano considerate le ragionevoli aspettative dell’interessato in base alla sua relazione con il Titolare con riguardo al loro ulteriore utilizzo,
  • vengano valutate le conseguenze per l’interessato dell’ulteriore trattamento,
  • esistano garanzie adeguate (come ad esempio la pseudonimizzazione dei dati personali),

e solo dopo aver valutato di non poter conseguire tali finalità trattando dati de-identificati o anonimi.

La questione si complica qualora il trattamento ulteriore per finalità di ricerca scientifica venga effettuato da un soggetto terzo.

In questo caso, infatti, l’apertura del GDPR si scontra con l’articolo 110 bis del nostro codice privacy, il quale richiede, per il secondary use da parte un terzo, l’autorizzazione del Garante quando fornire l’informativa privacy è impossibile o implica uno sforzo sproporzionato, oppure rischia di impedire o pregiudicare la ricerca, e sempre che siano adottate misure di garanzia, comprese forme preventive di minimizzazione e di anonimizzazione dei dati.

 

Storie di respiri: lo storytelling per i pazienti affetti da ipertensione polmonare

Ipertensione polmonare

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“La malattia è una battaglia, ma avere accanto persone di cui ti fidi e un supporto che è pronto ad aiutarti quando ti trovi in difficoltà è importante”. Così Simone racconta l’importanza che la sua famiglia e il supporto tecnico di Breelib hanno avuto durante tutto il percorso di cura per l’ipertensione polmonare.

Questa storia, insieme a quella di altre cinque persone provenienti da tutta Italia, ha dato vita al progetto di storytelling Storie di Respiri che ha l’obiettivo di raccontare l’ipertensione polmonare attraverso le parole di chi tutti i giorni lotta per affrontarla, i pazienti.

Una malattia rara e di difficile diagnosi perché caratterizzata da sintomi aspecifici come affanno e stanchezza, ma che se correttamente trattata può permettere di non dover rinunciare a tutto.

Anna, Olindo, Eugenia, Clotilde, Paolo e Simone sono i protagonisti dell’opuscolo che di abbiamo realizzato grazie al contributo di Bayer e con la sponsorizzazione dell’Associazione Pazienti AMIP (Associazione Malati Ipertensione Polmonare).
L’obiettivo è quello di condividere un vissuto che accomuna tutti i pazienti affetti da ipertensione polmonare e accrescere la conoscenza sulla malattia.

Abbiamo posto una domanda al Professor Vizza del Dipartimento di Scienze Cliniche Internistiche Anestesiologiche e Cardiovascolari de La Sapienza di Roma, figura di riferimento nell’ambito della Ipertensione polmonare:

Quanto è importante per il paziente affetto da ipertensione polmonare poter contare su un supporto tecnico durante il suo percorso di terapia?

L’ipertensione arteriosa polmonare è una malattia che richiede trattamenti complessi; con questo intendo la somministrazione di farmaci per via inalatoria, sottocutanea o infusionale. In questi casi avere il supporto di personale specializzato nella gestione dei device per l’erogazione dei farmaci è fondamentale, sia nella fase di addestramento dei familiari e dei pazienti, sia in caso di malfunzionamento. Un altro aspetto importante è la possibilità di avere la distribuzione domiciliare del farmaco e del materiale di consumo.

 

Laura Gagliardini, Presidente dell’Associazione AMIP (Associazione Malati Ipertensione Polmonare) ci ha spiegato l’importanza rivestita dallo storytelling:

Che ruolo ha la condivisione delle storie di malattia nel supporto ai pazienti?

Condividere le proprie storie si è rilevato fondamentale (noi abbiamo pubblicato un libro ad uso dei soci sulla resilienza), in quanto il malato non si sente solo e può prendere spunti per rielaborare “la sua nuova vita”.

 

Ci auguriamo quindi che storie di respiri possa essere uno spunto per tutti coloro che avranno la possibilità di leggere queste storie di persone che tutti i giorni affrontano le proprie paure, le complicazioni, con coraggio.

 

 

 

 

 

 

 

Intervista alle Slide Queen, visual and slide designer

Comunicazione visiva

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In un contesto lavorativo che investe sempre più sulla digitalizzazione, che ruolo ha la comunicazione visiva?  

La comunicazione visiva in questo contesto sempre più digitalizzato ha un ruolo fondamentale e deve, essa stessa, affrontare delle sfide non da poco. Una di queste è senza dubbio il tema della riconoscibilità: in una fruizione sempre più parcellizzata dei contenuti prodotti per il nostro ecosistema digitale che rimbalzano dal sito web proprietario a LinkedIn, passando dalla pagina Facebook per arrivare a una stanza di Clubhose il nostro brand o servizio o prodotto dev’essere subito riconoscibile.
Le persone che ci seguono devono subito accorgersi di chi sta parlando attraverso un brand con una forte identità e un visual storytelling con format coerenti al corporate aziendale e con un tono di voce rigoroso.

 

Capacità di organizzare il pensiero e renderlo visuale: dote innata o skill da affinare? 

Crediamo che sia una skill da affinare, senza ombra di dubbio; imparare a leggere le immagini e quello che rappresentano dovrebbe essere uno degli argomenti da studiare sui banchi di scuola, purtroppo non è così. Imparare a esprimersi e a esporre il proprio pensiero attraverso dei segni è fondamentale per riuscire a sintetizzare il mondo che ci sta attorno.

Ritornando al periodo storico che stiamo vivendo, la facilitazione visuale è un metodo che ha tanti vantaggi tra i quali il permettere di rappresentare la realtà senza dover usare la lingua, perciò può essere un valido punto di contatto tra culture diverse.

 

Il mondo dell’healthcare di solito punta su una comunicazione visiva sempre “protettiva”, come si fa la differenza?

Secondo noi creando un brand molto forte a livello grafico, testuale e soprattutto valoriale.
Le domande che è necessario porsi tutte le volte che strutturiamo un contenuto devono essere:

  • quali sono i valori del mio brand e come li comunico?
  • qual è la promessa che faccio al mio pubblico e come la comunico?
  • la mia comunicazione è coerente ai miei valori e alla mia promessa?

Se tutto è allineato possiamo creare e distribuire il nostro contenuto che sicuramente non passerà inosservato.

Per fare la differenza in un contesto che usa messaggi ‘protettivi’ si può pensare di creare degli elementi disruptive e innovatori magari usando canali di distribuzione inusuali, senza perdere riconoscibilità, allineamento dei valori e promessa.

Intervista a Maria Cristina Lavazza, experience designer

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Si sente sempre più spesso parlare di User experience, ci puoi spiegare esattamente cosa si intende con questo termine?

È il modo in cui ognuno di noi reagisce alle sollecitazioni esterne, qualsiasi esse siano.

In realtà definire esattamente cosa significa esperienza è davvero complesso. Un tempo l’esperienza consisteva nel vivere o fare interazioni molto semplici: se le nostre nonne stavano male andavano dal medico che gli dava un farmaco direttamente dal suo studio, se volevano un abito nuovo andavano dalla sarta, o nella merceria di zona, per scegliere stoffa e modello.

L’interazione era facile, diretta, lineare: ad un bisogno corrispondeva un’azione unica e una risposta più o meno scontata.

Oggi i nostri bisogni si sono moltiplicati di pari passo con la complessità dell’offerta: possiamo scegliere. Possiamo scegliere dove e come fare le cose, ma soprattutto quali elementi combinare per vivere a pieno la nostra esperienza. Perché l’altro elemento chiave con il quale misurarsi nella progettazione di esperienze complesse è l’impossibilità di standardizzarle. Le esperienze sono personali e ognuno le vive in maniera unica.

Dunque la mia personale esperienza di acquisto online e di assistenza può essere molto positiva, per un altro quel piccolo ritardo nella risposta può trasformare la sua esperienza in un’inefficienza da urlare sui social. Sì, perché le esperienze negative hanno il potere di attaccarsi alla nostra memoria in maniera indelebile. E questo vale per qualsiasi esperienza: dall’acquisto, alla cura, al tempo libero, alla mobilità. In altre parole siamo tutti immersi in migliaia di esperienze con realtà esterne (personali, sociale, pubbliche, private) di cui non ne percepiamo l’influenza.

 

User experience e programmi di supporto per il paziente, come si possono combinare?

Dominare un’offerta così sfaccettata è davvero difficile, se poi si toccano temi sensibili come la salute e le emozioni delle persone progettare esperienze positive diventa funambolico. Anche per questo la parola “esperienza” va declinata: in ambito clinico e farmaceutico dobbiamo parlare di “Patient experience” che comporta l’analisi e la valutazione di elementi in più rispetto alla più tradizionale user experience. L’approccio di esplorazione dell’esperienza del paziente sta cambiando moltissimo anche per questo dovremmo parlare di patient centered design, ovvero della progettazione che mette realmente al centro il paziente. Fino ad oggi la ricerca del Pharma si è concentrata sulla relazione tra paziente e farmaco ascoltando primariamente clinici o centri specializzati. Ma il paziente non è la sua malattia e la sua esperienza è il prodotto del suo essere tante cose, ovvero dell’essere “persona”.

I programmi a supporto dei pazienti fanno proprio questo, integrano l’esperienza di cura permettendo alle persone di vivere meglio il periodo, più o meno lungo, del trattamento. Il farmaco diventa parte di un puzzle più ampio.

Nell’ultimo anno abbiamo assistito a una velocissima digitalizzazione dei servizi, come si è organizzato il patient centered design?

Il digitale ha sicuramente aiutato la crescita di servizi più efficaci e mirati rispetto alla patient experience. Ma bisogna prestare attenzione ad un tema molto diffuso, non solo in campo medico, che è quello di pensare alla tecnologia come alla panacea di tutti i mali. L’esperienza del paziente ci dice proprio questo: non tutti i pazienti sono uguali, i pazienti vivono reazioni ed emozioni diverse e non esistono soluzioni per tutte le stagioni.

Scegliere una strada rispetto ad altre deve essere il prodotto di una ricerca sui pazienti, condotta a 360 gradi sulla loro vite e solo allora si può pensare di progettare una app, un drone o un semplice sticker da frigo. L’esperienza va sempre ritagliata sulle persone e i loro scenari. Un po’ come quello che stiamo vivendo oggi: il distanziamento sociale non rende semplice esplorare l’universo quotidiano di altre persone, ancora di più se ammalate. Bisogna trovare nuove soluzioni, e qui il digitale ha aperto spazi infiniti per fare ricerca a casa dei pazienti, farcendo girare video o tenendo diari da mobile.

Niente più focus group, ma un ascolto attivo e profondo di persone con le loro storie, anche se necessariamente a distanza. Tutto questo è patient experience design.