La relazione terapeutica ai tempi del Coronavirus: la storia di Alfonsina
Dal 9 marzo le nostre vite sono state stravolte, le nostre certezze minacciate. Un grosso tumulto emotivo ci ha travolti, quasi come se stessimo osservando la nostra vita da una finestra, come se non ci appartenesse… non può essere! Non è possibile! Il Covid 19 ha stravolto i nostri ritmi biologici e psicologici, le nostre relazioni, si è impadronito della nostra libertà.
Dopotutto, fino all’inizio della pandemia, la città di Wuhan non era altro che una parte di mondo sconosciuta, lontana da noi sia fisicamente che emotivamente. Si è fatto spazio dentro di noi la consapevolezza che tutto è cambiato in modo dirompente, e dopo un primo momento di incredulità e distacco dalla realtà, la rabbia la paura e lo sgomento hanno scandito il ritmo giornaliero del nostro mondo interiore. Sono cadute le certezze, dando spazio all’amara consapevolezza dell’assenza dell’altro, dei rapporti sociali, di una quotidianità data per scontata ed ora tanto desiderata.
Il nostro lavoro come psicoterapeuti è stato “aggredito” nel suo aspetto fondamentale, il generatore di cambiamento attraverso la certezza dell’esserci… la relazione.
La relazione è fatta dell’incontro nel setting, di dialoghi, d’incroci di sguardi, di vissuti espressi con il linguaggio del corpo, attraverso quei sospiri impercettibili che solo la condivisione dello spazio “terapeuta paziente” mette in comunione e fa cominicare fra loro.
Anche noi psicoterapeuti siamo stati chiamati ad un cambiamento, cambiamento necessario a trasmettere ai nostri pazienti il nostro esserci nelle loro vite. In questa emergenza abbiamo fatto ricorso alla strutturazione di un setting “diverso”, nato nei byte, fatto di clic e di videochiamate. Ci siamo adattati creativamente al nuovo. Nonostante le difficoltà, le sofferrenze, abbiamo colto e rimandato ai nostri pazienti due cose importanti: vivere con la consapevolezza che il Covid 19 è fra di noi, ma nello stesso tempo mantenere viva e pulsante la speranza che genera energia e voglia di far fronte al dolore e alle sofferenze. Il nostro ruolo in questo tempo è stato di accoglienza, condivisione e presenza.
Una paziente, infermiera, ha trovato nei nostri incontri l’unico spazio dove poter dare voce alle sue angosce, alla sue paure. L’ambiente di lavoro si è trasformato in un bacino di emozioni forti, intense e devastati: paragonava l’entrare in reparto come il varcare la trincea in guerra, con un compagno di viaggio costantemente presente, lo spettro della paura della morte. Il solo pensare di poter essere contagiata dal virus la devasta, ed ancor di più la terrorizza l’idea della possibilità che essa stessa possa veicolare il virus della morte ai suoi cari, non riuscirebbe a sopravvivere al senso di colpa.
Il suo ruolo gli impone di dare coraggio, stabilità, mantenere alto il livello di guardia, ma nello stesso tempo trasmettere la speranza che “andrà tutto bene”.