IL KNOWLEDGE SHARING NEL LAVORO

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Parlare di knowledge sharing significa parlare di una condivisione che mira ad abbandonare una visione individualista del lavoro ed abbracciarne una più collettiva e solidale. Non basta più avere collegamenti saldi tra i reparti di un’azienda poiché le informazioni devono venire condivise tra i singoli individui. Così facendo, si entra a far parte di un processo che porta l’azienda a crescere e a svilupparsi anche su un piano orizzontale.

Ma cosa si intende con “conoscenza”? 

All’interno di un’organizzazione lavorativa ve ne sono due tipi. La prima, detta esplicita, è costituita da tutte quelle informazioni scritte e consultabili, come le policy aziendali, i contratti, i dettagli sui prodotti e così via. La seconda è invece detta conoscenza implicita  e consiste in tutte quelle informazioni che si apprendono durante il lavoro, spesso maturate in anni di esperienza.

Per fare knowledge sharing va innanzitutto eliminata la convinzione che le informazioni migliori provengano da coloro che ricoprono cariche più alte in azienda: quello che è invece necessario è stimolare la condivisione ad ogni livello dell’organizzazione, indipendentemente dalla posizione gerarchica degli individui. 

I risultati di questo case study mostrano come una buona condivisione della conoscenza tra le persone che collaborano ad uno stesso progetto porta ad un’efficienza maggiorata. Attraverso l’utilizzo di una piattaforma mirata all’ottimizzazione delle prestazioni operative, si è ridotto considerevolmente il numero di email, chiamate e riunioni, facilitando così la collaborazione tra diverse regioni e funzioni aziendali. Questi miglioramenti di produttività hanno aumentato la motivazione attraverso l’instaurazione di un obiettivo comune all’intera organizzazione.

Vantaggi

I peggiori nemici del knowledge management sono il tempo impiegato per l’accesso alle informazioni e la scarsa volontà di chi deve fruirne; parliamo quindi dell’impatto che una buona gestione delle informazioni comporta sul lavoro.

Quali sono i vantaggi del knowledge sharing? Come affrontato in questo interessante studio dal titolo KNOWLEDGE SHARING TOOLS AND KNOWLEDGE TRANSFER: A MEDIATING ROLE OF MOTIVATION, la condivisione porta beneficio a tutti: i dipendenti, lavorando con le conoscenze e il supporto degli altri, saranno più produttivi e valorizzati. Il dialogo, la formazione e lo scambio, portano ad una procedura lavorativa più proficua e stimolante, che non risente della paura dei singoli di essere espropriati delle proprie conoscenze e capacità. Tale processo porta a un aumento dello spirito di appartenenza all’organizzazione, al livello di motivazione e coinvolgimento, alla fiducia reciproca e alla collaborazione. Vi è inoltre un fattore emotivo che riguarda gli individui, i quali, quando sentono di far parte di una realtà che investe su di loro, non solo lavorano meglio e più serenamente, ma non rischiano di ostacolarsi l’un l’altro mantenendo ognuno una prassi lavorativa differente. 

I due approcci al knowledge management

La condivisione della conoscenza, dunque, può facilitare e valorizzare molteplici processi, quali l’onboarding, l’integrazione tra aree, l’innovazione, ma anche il benessere delle persone, favorendo un ambiente che privilegia lo scambio, la curiosità e il confronto continuo. Per questi motivi, le modalità con cui condividere conoscenze nelle organizzazioni sono da diversi anni al centro di molti studi e diversi approcci. 

Il dibattito sul knowledge management è sicuramente molto acceso e le varie definizioni di conoscenza aiutano a proporre differenti impostazioni sul come affrontare un progetto di questo tipo. 

La conoscenza viene intesa da alcuni come una risorsa “cristallizzata”, un oggetto sfruttabile e riutilizzabile. Diversamente, altri approcci ne individuano le particolarità nell’aspetto sociale: la conoscenza dunque nascerebbe e si modificherebbe continuamente attraverso le pratiche sociali di una comunità lavorativa, per cui “soggetto ed oggetto di conoscenza si definiscono (e si costruiscono) a vicenda” (Gherardi, 2003).

Se prevale il primo approccio, la soluzione di un progetto di KM può essere ricondotta ad una banca dati che gestisca procedure e manuali, i quali favoriscono la “cristallizzazione” della conoscenza e diventano i contenitori dell’apprendimento.

Il knowledge management in HNP

Crediamo che, attraverso un’operazione di sintesi, si possa integrare il primo approccio al secondo. E’ dunque necessario capire come gestire un processo organizzativo e al contempo interrogarsi su quale contesto organizzativo favorisca l’apprendimento. 

Rendere operativo il valore della condivisione per un provider di servizi per la salute è un compito importante; con la continua crescita dell’organizzazione, la sfida che intendiamo intraprendere è quella di favorire un ambiente curioso, che fa della condivisione della conoscenza un elemento fondamentale per la collettività e per le singole persone.

Gli obiettivi su cui stiamo lavorando sono:

  • La creazione di luoghi dove sedimentare le conoscenze sviluppate in questi anni. Abbiamo avviato un progetto che mira a raccogliere e organizzare il materiale formativo a supporto dei PSP, che risulta un’importante fonte conoscitiva riguardante le patologie rare e croniche, le pratiche di assistenza domiciliare e gli strumenti di ascolto e supporto ai pazienti. 
  • Sostenere le diverse comunità di pratiche che custodiscono i saperi esperti nella nostra organizzazione (l’area medica e quella infermieristica, quella gestionale, la farmacovigilanza ecc.). Per questo vogliamo dedicare del tempo alla condivisione per creare occasioni di networking formale e informale, fornendo spazi adibiti alla condivisione e alla trasmissione della conoscenza (un primo esempio è stata l’esperienza avviata con HR Radical intorno al tema degli obiettivi, ai team interfunzionali avviati, ecc.).
  • Promuovere una cultura orientata alla curiosità e alla diversità, con persone tolleranti delle idee altrui e amanti del sapere (su questa tematica si muove il progetto DEI)
  • Rafforzare la capacità di networking e knotworking (Engeström, 1999), ovvero  riuscire a tessere relazioni e generare nodi, alleanze, che si sviluppino sia dentro che fuori l’organizzazione. 

Valutare il potenziale dei propri collaboratori

valutare il potenziale

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Quando si parla di valutazione del personale non ci si riferisce solo alla misurazione della prestazione lavorativa ma piuttosto alla gestione (. piani incentivanti, premi, …) e allo sviluppo (interventi formativi, piani di carriera, etc..) delle persone che operano all’interno dell’organizzazione.

Tra le diverse tipologie di valutazione ce n’è una che risulta particolarmente complessa: quella del potenziale.

La valutazione del potenziale permette di indagare se una risorsa possiede delle caratteristiche, delle capacità, delle attitudini che in quel momento non sono ancora state espresse. Infatti queste possono non essere richieste dal ruolo che attualmente si ricopre, risultano però importanti per individuare quali sono le sue aree di miglioramento e di sviluppo, con l’obiettivo di progettare percorsi di crescita interni o di cambio di ruolo.

Quando si struttura un percorso di valutazione del potenziale è importante procedere per step: il primo punto è la definizione degli obiettivi e delle finalità di intervento, in questo modo si potranno delineare i criteri di valutazione e gli strumenti per portare avanti l’analisi.

Per quanto riguarda gli strumenti si può scegliere tra: assessment center, interviste (non solo ai partecipanti della valutazione ma anche a colleghi o superiori), prove in basket, osservazioni sul campo, test e questionari.

È importante condividere con le risorse coinvolte quelli che sono gli obiettivi e i criteri di valutazione e pianificare un momento di feedback e restituzione dei risultati al termine del percorso.

Questo processo risulta applicabile anche a professionalità verticali nel mondo healthcare come gli infermieri? Assolutamente sì, ed è per questo che abbiamo iniziato un percorso rivolto alla nostra rete infermieristica in collaborazione con @Donata Bruzzi – psicologa del lavoro.

Il progetto pilota si concentra su 10 profili differenti per geografia, tipo di attività e anzianità di servizio.

L’obiettivo è stato quello di valutare le competenze comportamentali degli infermieri rispetto ad alcune aree quali: coordinamento, pianificazione, leadership e aderenza ai valori e alla mission di HNP. Per fare questo, il percorso di valutazione ha previsto:

  • un colloquio finalizzato a raccogliere un quadro di competenze, valori e motivazioni
  • la somministrazione di una batteria di test psicoattitudinali.

In linea con le attuali evoluzioni tecnologiche, l’intero processo di valutazione è avvenuto tramite strumenti digitali: la batteria di test Hogan, costruita in modo da rendere immediata la compilazione via web, e una intervista attraverso videocall. Questo ci ha permesso di gestire l’assessment in modo agile, limitando l’impatto logistico dell’iniziativa, ma nello stesso tempo preservando la qualità dell’osservazione delle persone coinvolte. È infatti una pratica consolidata l’utilizzo di videointerviste e strumenti on line anche per le attività di assessment, come l’assessor ha spiegato in un articolo:

Ad esperienza conclusa, la percezione da parte della assessor è stata di “un buon livello di partecipazione da parte delle persone coinvolte, che hanno dimostrato curiosità e disponibilità ad accogliere i feedback. Ciascuno di essi ha ricevuto un quadro complessivo sulle proprie competenze comportamentali, ed alcune indicazioni per migliorare la performance sia al momento attuale, che in ottica di sviluppo del percorso lavorativo in HNP. Nel suo insieme la squadra coinvolta nel processo di valutazione si è caratterizzata per la presenza di persone sensibili alla qualità e all’innovazione scientifica, propense ad un atteggiamento altruistico verso clienti e colleghi, attente nell’ascolto degli altri, in linea con i valori aziendali”.

Emerge così come la valutazione del potenziale abbia una duplice importanza sia per l’organizzazione sia per le persone coinvolte: la prima può, in ottica strategica, avere un quadro più chiaro delle competenze del suo team e degli strumenti che può mettere in campo per favorire l’engagement.  Dall’altro, le risorse coinvolte si sentono valorizzate, non solo per poter prendere parte alla crescita aziendale ma anche per avere la possibilità di mettersi in gioco e acquisire una maggior consapevolezza delle loro potenzialità.

 

Riunirsi per generare valore: il potere degli eventi corporate

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Può un evento corporate generare valore per la narrazione di una azienda? Assolutamente sì se inserito all’interno di un lavoro chiaro e coerente sulla identità.

HNP, seguendo questa strada, organizza periodicamente momenti dedicati all’azienda: staff meeting informativi, partecipativi o formativi volti a creare un racconto, sulla strada percorsa insieme, su ciò che sta vivendo e su come si immagina il futuro.

Per una azienda a rete come HNP, costituita dalla connessione tra i diversi nodi, le persone, appartenenti a differenti comunità professionali (ingegneri aziendali, infermieri, medici, psicologi, ecc.) e distribuite su tutto il territorio nazionale l’evento diventa una tecnica di governo dell’organizzazione stessa, quindi uno strumento efficace nel guidare e orientare l’azione.

Un elemento da valorizzare nelle organizzazioni a rete è infatti l’elevata capacità dei nodi di autoregolarsi, che va di pari passo con la loro abilità nel cooperare in vista del raggiungimento di un comune obiettivo.

Governare un’impresa a rete implica dunque la capacità di progettarla costruendo e rafforzando il legame tra i nodi, senza privarli della loro autonomia. Per riuscire in questo si può agire su molte leve: organizzative e incentivanti da un lato e narrative dall’altro.

Il racconto si fa tecnica di governo che può dare un importante contributo simbolico ed evocativo all’azienda e ai membri che la costituiscono. Il racconto diventa la base per la realizzazione di eventi di staff come occasioni per garantire il più possibile la simmetria informativa con tutti i nodi della rete.

Il racconto è più che mai indispensabile in una realtà come quella del mondo healthcare, in continua evoluzione e sempre più dinamica. Nel suo quotidiano l’azienda è chiamata ad essere rapida nella sua operatività. Questa velocità rende difficile per l’impresa osservare e osservarsi, generando la necessità di ritagliarsi dei momenti in cui riflettere su quello che accade e sulla direzione che si sta seguendo.

Gli eventi corporate permettono proprio di rispondere a questa necessità: permettere ai membri dell’organizzazione di superare l’entropia generata dall’operatività e di costruire insieme la strategia aziendale.

Come organizzare un evento corporate? Prima di tutto avendo chiaro l’obiettivo: un aggiornamento sullo status quo, una condivisione degli obiettivi piuttosto che un rafforzamento di precise dinamiche tra i membri della rete.

Una volta stabilito il motivo per cui si sta organizzando il meeting si procede con la stesura dello storyboard che guiderà la selezione degli interventi e delle attività che hanno il compito di rispondere al ritmo che si vuole dare e alla narrazione.

La pandemia ci ha visti obbligati a ripensare agli eventi corporate e trasportarli online, usando nuove tecniche di ingaggio: dai kit esperienziali inviati qualche giorno prima dell’evento, momenti di pausa tra chiacchiere informali, interventi meno frontali e più emozionali.

In questa nuova fase sarà necessario pensare a delle modalità ibride che coniughino l’esigenza della presenza con l’opportunità della distanza per garantire il senso di sicurezza che sta alla base dello “stare bene” aziendale.

Anche la scelta della location risulta fondamentale per permettere una narrazione coerente del “chi siamo” e “dove vogliamo andare”.

Nel bilanciamento delle attività è, come abbiamo detto precedentemente, necessario prevedere momenti di formazione, informazione ma anche di attività unicamente pensate per fare “team”, possibilmente create ad hoc pur lasciando liberi i partecipanti di esprimersi secondo la propria modalità.

La chiusura di ogni evento corporate è un momento molto importante: la restituzione che viene fatta del tempo e delle attività condivise costituisce il bagaglio che ogni partecipante porta con sé nel suo agire quotidiano. Può essere gradito riassumere i messaggi chiave affrontati e chiedere a ciascun partecipante un contributo da offrire agli altri membri del team e di conseguenza all’organizzazione.

Analizzare ex post l’evento è uno step necessario per capire se si sono raggiunti gli obiettivi prefissati e se sono emersi nuovi punti di interesse; per questa ragione è importante sottoporre ai presenti una survey da far compilare nei giorni successivi.

Inizia a raccontare, diventerà realtà”: riprendendo le parole di Baricco, Gianni Belletti – Country Manager di HNP – nell’ultimo staff meeting ha messo in luce l’importanza di scegliere parole, numeri, immagini che in un evento corporate esprimano l’identità aziendale, raccontando tutta la storia dell’organizzazione.

Le modalità con cui realizzare un evento possono essere infinite: la sfida è lavorare su una narrazione ben costruita, che ricerchi una coerenza, capace di rappresentare gli aspetti più importanti per l’oggi e per il domani, attraverso un racconto avvincente che possa essere veicolato dai nodi che diventino, in prima persona, portatori della storia ai punti più lontani della rete.

 

Gamification e selezione del personale: il connubio vincente

gamification

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Negli ultimi anni si è reso sempre più necessario individuare metodiche innovative per scegliere nuovi collaboratori e dipendenti per l’azienda. La gamification è una strategia che permette di avvicinare il candidato all’organizzazione, attraverso un incontro virtuoso che mette in luce il carattere e le capacità della persona; in particolar modo in un periodo come quello della pandemia da Covid-19 che ha richiesto al mondo HR di valutare i candidati, molto spesso, attraverso uno schermo.

La selezione: il punto di vista di candidato e azienda

Il colloquio corrisponde al momento in cui la domanda incontra l’offerta: è in questa fase che candidato e organizzazione si confrontano per capire se e in che misura le capacità del lavoratore possono essere messe a disposizione dell’azienda e in che modo quest’ultima possa soddisfare le esigenze del candidato stesso.

Si tratta di un momento fondamentale, in cui il candidato ha modo di conoscere una realtà per lui nuova e, a prescindere dall’esito della selezione, entrare in contatto con un modo di lavorare differente da ciò a cui è abituato. Al tempo stesso è un momento significativo per le risorse umane, che hanno modo di confrontarsi con un pool di candidati e capire chi più si avvicina ai bisogni dell’azienda o come eventualmente modellare la posizione aperta. Non solo: la ricerca di un candidato permette all’azienda di mostrarsi al mercato, mettendo in luce i punti di forza e le caratteristiche della propria realtà.

Per riuscire nell’intento e individuare i candidati più adeguati alle posizioni aperte, HNP ha deciso di adottare una metodologia nuova nel mondo HR: la gamification.

Gamification per selezionare candidati promettenti

Grazie alla collaborazione di Laborplay, spin off dell’Università di Firenze, è stato possibile sperimentare strumenti game-based e gamification che HNP ha utilizzato per alcuni nuovi inserimenti. La scelta della metodologia è il risultato del bisogno di testare i candidati rispetto a skill relazionali, difficilmente osservabili in colloqui da remoto.

Come diceva Platone, “si può scoprire di più di una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”: il gioco, applicato al momento della selezione del personale, permette infatti di coinvolgere i candidati in un’esperienza caratterizzata da regole, mosse ottimali per vincere (quindi strategie per raggiungere l’obiettivo) e possibili comportamenti di altri giocatori, collaboratori o rivali in base all’andamento del gioco.

La gamification permette di andare oltre il CV o il semplice colloquio, consentendo alle risorse umane di valutare le skill delle persone che hanno di fronte, il loro potenziale. Grazie al gioco, infatti, la persona è a suo agio e riesce a mostrare le sue abilità e competenze in maniera più spontanea. Il gioco, che sia individuale, cooperativo o competitivo, mette in luce i processi logici, le capacità di ragionamento, le abilità nel superare le difficoltà e nel trovare soluzioni nell’immediato, mostrando le reazioni che il candidato ha e raccogliendo dati oggettivi per valutare al meglio le abilità e capacità relazionali.

Lo strumento dà poi la possibilità di riconoscere i diversi profili che inevitabilmente emergono dall’interazione: alti potenziali e futuri manager, senior manager e tecnici, così come good performer e key people; in questo modo si può avere sin da subito una chiara idea sulle persone che si stanno testando e una visione strategica per il futuro.

La gamification è dunque una metodologia che permette di conoscere il candidato in una veste già operativa, di confronto, fornendo alle risorse umane preziosi indizi sulla persona.

Covid-19, la sfida di HNP per tutelare la salute del proprio team e dei pazienti supportati

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Come si può garantire la business continuity salvaguardando la salute dei lavoratori e dei loro assistiti?

In ambito sanitario, rispondere a questo interrogativo significa trovare il modo di continuare a fornire i servizi essenziali mettendo in atto le possibili azioni volte a mitigare i rischi.

Per questo i provider di programmi di supporto devono essere allo stesso tempo veloci e compliant nell’adattare i protocolli di sicurezza necessari per salvaguardare i propri healthcare professionals, i pazienti e i loro caregivers.

Linee guida il più possibile chiare e una comunicazione efficace e continua. Sono questi i due pilastri su cui HNP ha basato la sua strategia garantendo l’erogazione di programmi di supporto al paziente durante il periodo di lockdown e nei mesi successivi.

 

Resilienza e comunicazione quali linee guida per garantire la continuità assistenziale

 

Healthcare Network Partners ha da subito affrontato i rischi connessi alla pandemia attuando protocolli e definendo linee guida che consentissero ai propri operatori di proseguire la loro attività sul territorio in sicurezza. Una forte attenzione sull’utilizzo di adeguati DPI, la formazione e la sensibilizzazione rispetto alle procedure degli operatori, lo sviluppo di canali di comunicazione con i pazienti, favorendo lo smart working e il supporto a distanza dove possibile ha garantito la continuità assistenziale che oggi più che mai ricopre un ruolo essenziale in ambito sanitario.

Un gruppo di professionisti specializzati in diversi ambiti, in un processo di miglioramento continuo, ha unito le competenze per delineare strategie integrate da attuare tempestivamente e, grazie al confronto e alla continua raccolta di feedback dagli operatori, si è proceduto a modificare e adattare i protocolli per prevenire e rispondere al meglio allo stato di emergenza cercando di rafforzare ove possibile la resilienza dell’organizzazione.

La comunicazione, poi, ha giocato un ruolo fondamentale in questi mesi. La comunicazione interna è stata volta sin dalle prime settimane a responsabilizzare i propri operatori sottolineando l’importanza del rispetto dei protocolli e delle disposizioni che individuano nell’attento utilizzo dei DPI necessari da parte sia degli operatori sia dei pazienti uno degli aspetti fondamentali, aumentando la consapevolezza sulla prevenzione dei rischi.

L’ impegno collettivo – che vede operatori e pazienti farsi carico delle proprie responsabilità è indirizzato verso un unico obiettivo: quello di garantire la continuità assistenziale tutelando la salute di tutti. Proprio questo ha permesso di superare il rischio di irrigidire il servizio, rafforzando quel rapporto umano e di fiducia tra operatore e paziente che da sempre caratterizza i programmi di home treatment.

Al fine di favorire il benessere degli operatori chiamati a lavorare in situazioni di crescente stress è stato attivato anche un supporto psicologico volto ad aiutare a gestire l’incertezza crescente.

Invece, la comunicazione esterna con gli stakeholder è stata determinante per mantenere e rafforzare un allineamento continuo rispetto alle scelte messe in campo durante questi mesi. In particolare, la comunicazione con l’autorità sanitaria è stata gestita per facilitare il tempestivo rilevamento dei casi sospetti, quale elemento necessario per continuare a garantire la sicurezza di tutti, dentro e fuori la rete di HNP.

 

#NoidiHNPciVacciniamo

 

Affianco alle misure che regolamentano l’attività degli operatori sul territorio, HNP ha avviato una campagna di sensibilizzazione rivolta a tutti i dipendenti e collaboratori volta a sostenere la diffusione del vaccino quale mezzo sicuro ed efficace per prevenire l’influenza e per ridurne le possibili complicanze.

In tal senso Sara Masi, HR Manager di Healthcare Network Partners, sottolinea: “In questi mesi HNP sta cercando in tutti i modi di essere vicina ai suoi dipendenti e collaboratori, mettendo al primo posto la salute di tutti coloro che lavorano con un’attenta e puntuale mitigazione del rischio in rapporto a una gestione della continuità del servizio più capillare possibile”.  Inoltre specifica Chiara Musiani, HR Specialist: “Allo stesso tempo grazie all’introduzione dello smart working il personale della sede ha operato in sicurezza continuando a supportare gli operatori sul territorio. Anche se con qualche difficoltà iniziale, lo smart working ci ha permesso di sperimentale un nuovo modo di lavorare, focalizzato sugli obiettivi, che andremo a promuovere anche in futuro.”

 

Tutto questo ha permesso ad Healthcare Network Partners di rispondere prontamente anche all’incremento di lavoro conseguente alla richiesta di attivazione di nuovi programmi di supporto, senza mai smettere di mettere al primo posto la salute del proprio team, di tutti i collaboratori e dei pazienti.

Il supporto nutrizionale a distanza

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La situazione emergenziale causata dal Covid-19 ha aperto ai Biologi Nutrizionisti la possibilità di effettuare le consulenze da remoto ed elaborare diete online, fornendo assistenza anche da distanza.

Essere guidati dal punto di vista alimentare – quindi di salute – in un momento così difficile sotto numerosi aspetti, è stato molto utile per raggiungere gli obiettivi prefissati, evitando che fattori quali pigrizia, disinteresse e poca cura verso sé stessi prendessero il sopravvento.

Il risultato di questa apertura? Notevoli miglioramenti all’interno dei propri nuclei famigliari grazie a nuove e fondamentali abitudini alimentari.

Come influisce la distanza quando si parla di nutrizione all’interno di un PSP?

La creazione di un regime alimentare deve rispettare la personalizzazione, ma allo stesso tempo deve tenere conto della necessità di creare un supporto in grado di rispondere a un approccio valido per tutti i suoi utilizzatori.

Attraverso la componente nutrizionale, il PSP può rispondere alla necessità dei pazienti di adeguare e perfezionare il proprio modo di alimentarsi anche da remoto, migliorando l’aderenza alla terapia.

Tra i principali obiettivi del supporto nutrizionale c’è la modifica delle abitudini alimentari non corrette indirizzando il paziente verso una corrispondenza con le linee guida previste per la patologia in questione.

Gli strumenti messi in campo possono variare a seconda degli obiettivi, ma alcuni di questi si dimostrano versatili: realizzare un materiale formativo che riesca a fare chiarezza sulle scelte alimentari inappropriate può costituire un buon punto di partenza.

I cambiamenti vanno successivamente messi in pratica, come?

Ad esempio attraverso la compilazione di un diario alimentare appositamente studiato, in formato digitale o cartaceo a seconda del tipo di paziente, che possa funzionare da auto-check permettendo quindi al paziente di prendere coscienza delle proprie abitudini non corrette che andranno trasformate in un atteggiamento alimentare positivo in grado di supportare e migliorare la propria condizione fisica.

Nella trasformazione delle proprie abitudini diventa fondamentale studiare, creare e assegnare degli obiettivi settimanali o mensili che devono essere successivamente verificati dal professionista stesso o da personale appositamente formato. La scelta dei mezzi per gestire un percorso a obiettivi è ricca: in questi mesi i canali più utilizzati sono stati principalmente quelli tramite voce e video. Quest’ultimo consente, in mancanza di un rapporto frontale, di stabilire un contatto empatico, aspetto che può incentivare il paziente a farsi guidare attraverso l’instaurazione di un rapporto di fiducia.

Il monitoraggio passa anche dalla determinazione delle misure antropometriche come l’altezza, il peso e le circonferenze. Infografiche, video tutorial che spieghino come effettuare le rilevazioni permette la gestione a distanza di una pratica che potrebbe rivelarsi motivo di sconforto, disagio e difficoltà pratica.

Le combinazioni di strumenti e tecniche a distanza viene studiata volta per volta a seconda delle caratteristiche del supporto richiesto tenendo sempre presente un obiettivo: offrire un sostegno efficace nella gestione della patologia.

Uno sportello di supporto per gli infermieri durante l’emergenza COVID-19

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In questo periodo di emergenza sanitaria, l’assistenza domiciliare è stata estesa oltre la prassi e i protocolli standard al fine di mantenere quanto più possibile i pazienti presso il proprio domicilio, evitando trasferimenti presso le strutture sanitarie che li esporrebbero a rischi non necessari. Ciò ha significato un grande sforzo in più per gli infermieri che operano nell’assistenza domiciliare, aumentandone sensibilmente la mole di lavoro e l’intensità delle prestazioni.

I protocolli aggiuntivi, l’utilizzo esteso dei dispositivi di protezione individuale, le procedure di igienizzazione e l’ingresso di nuovi pazienti nei PSP hanno sollevato dubbi e paure aumentando i livelli di stress negli operatori, peraltro già soggetti al timore di contrarre l’infezione e di trasmetterla ai propri familiari o alla sofferenza per la perdita di pazienti e colleghi.

Inoltre, la preoccupazione del contagio porta talvolta l’operatore sanitario a un vero e proprio auto-isolamento: aumenta il carico di lavoro, si limita la possibilità di confronto con i colleghi e i nuovi protocolli modificano sensibilmente il rapporto con i pazienti.

Con le condizioni lavorative, sociali e familiari mutate in maniera tanto repentina, è quindi frequente che emozioni quali rabbia, senso di impotenza, paura e frustrazione diventino presenze costanti e talvolta invalidanti per l’operatore sanitario, che può manifestare anche sintomi depressivi e prolungati stati d’ansia capaci di sfociare in insonnia persistente, somatizzazioni e in un aumentato consumo di tabacco e caffeina.

A fronte di questi possibili scenari, evidenziati anche dall’Istituto Superiore di Sanità, HNP ha tempestivamente attivato uno sportello di ascolto allo scopo di creare uno spazio di sostegno e supporto telefonico dedicato ai propri infermieri.

Lo sportello, grazie allo strumento delle videochiamate, si è potuto attivare molto rapidamente, consentendo anche la massima flessibilità nei confronti delle esigenze turnistiche degli infermieri.

Gli operatori possono quindi beneficiare di un sostegno psicologico mirato il cui obiettivo principale è quello di riconoscere il disagio e identificarne le cause dettate dalla straordinarietà della pandemia e di offrire, dove necessario, anche alcuni strumenti pratici per affrontare i momenti più difficili.

Oltre alle condivisioni personali, allo sportello si ricevono interrogativi specifici sulla sfera professionale nati in seguito alla ristrutturazione del lavoro.

“Come posso muovermi a casa di una persona che ha paura di farmi entrare? Come posso rassicurarla?

“Cosa posso dire al bambino a cui somministro la terapia che, in questo momento, non mi può salutare come al solito?”

Pur non esistendo una risposta univoca e universale a queste domande, grazie allo sportello è possibile trovare una risposta con la collaborazione dell’operatore stesso, analizzando le sue esigenze specifiche e le condizioni ambientali, diverse caso per caso, che si trova ad affrontare nell’esercizio della professione.

Sapere quando rassicurare il paziente, quando fornire spiegazioni e informazioni aggiuntive oppure quando aiutarlo con un semplice esame di realtà e quando invece rimanere empaticamente in ascolto, sono elementi psicologici di base a cui gli operatori possono ricorrere per continuare a offrire un’assistenza efficace in un momento eccezionale dove i pazienti e il sistema sanitario richiedono un livello superiore di cura e attenzione.

Ancora una volta la risposta migliore è stata quindi quella legata a un approccio di tipo multi-disciplinare e di lavoro “di squadra”, dove la capacità degli operatori in prima linea di leggere le nuove esigenze, proprie e del paziente, hanno trovato risposta in un supporto dedicato che condivide gli stessi obiettivi: continuare a fornire ai pazienti e ai caregiver gli standard di assistenza a cui sono abituati e aiutare gli operatori a costruire, caso per caso, le nuove condizioni con cui poter svolgere al meglio e serenamente il proprio lavoro.

Studiare il corretto protocollo di supporto nutrizionale: un processo per fasi

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Il sesso, l’età, le condizioni patologiche, l’attività fisica, le ore e la qualità del sonno, i farmaci,  le integrazioni, la digestione, la diuresi, la funzionalità intestinale continuando con la sete, il mal di testa, le allergie, le reattività alimentari, la forma del corpo, la regolarità del ciclo mestruale e i disturbi ginecologici, così come le manifestazioni cutanee, le appetenze, le alterazioni dell’umore, la predisposizione e le motivazioni a cambiare le abitudini alimentari e quelle quotidiane: l’elenco delle caratteristiche che rendono una persona unica potrebbero continuare. Siamo tutti meravigliosamente diversi.

L’individualità e la peculiarità di ognuno deve essere quindi approfondita, accolta e studiata per costruire un piano alimentare che calzi a pennello.

Viene da sé che farsi prestare la dieta dall’amica che è stata da un nutrizionista non è cosa buona e giusta, così come seguire regimi alimentari letti su un giornale non è un modo saggio per prendersi cura di sé.

Ognuno di noi ha diritto ad un piano alimentare ad personam, preciso ed unico che possa sostenere, riparare e riequilibrare il corpo.

Il colloquio con il paziente che necessita di un piano alimentare dovrebbe richiedere il tempo necessario per avere un inquadramento della persona che sia il più ricco e dettagliato possibile e che permetta di guidarlo verso scelte alimentari che siano appropriate a uno stato dinamico e di cambiamento.

Siamo dunque in continuo mutamento e quando introduciamo un alimento c’è un’interazione cibo- corpo; l’effetto di questa dipende da due fattori: le caratteristiche chimiche e le proprietà nutrizionali dell’alimento (vitamine, minerali, carboidrati, grassi, proteine, fibre) ma soprattutto lo stato in cui si trova l’organismo in quel momento – come sta funzionando l’intestino, lo stato infiammatorio silente, la capacità digestiva, la condizione emotiva.

Questi intrecci vanno osservati e studiati: è questo il frutto del lavoro che nasce dall’interazione diretta tra nutrizionista e paziente.

E quando il supporto nutrizionale diventa una componente offerta da un PSP? Il confronto diretto nutrizionista- paziente lascia spazio ad una personalizzazione per step codificati.

Il paradigma cambia: si parte dallo studio e dalla raccolta delle linee guida previste per ogni particolare condizione patologica. Questo risulta il primo passo per studiare un percorso nutrizionale che possa accompagnare il paziente nell’acquisizione di nuovi e corretti stili alimentari.

Risulta fondamentale segmentare la popolazione d’interesse per creare gruppi omogenei (sulla base di fattori quali comportamenti, caratteristiche fisiche e attitudini alimentari). Concentrandosi sui singoli personas creati si possono affinare le indicazioni alimentari e renderle più specifiche e di conseguenza più facilmente attuabili.

L’interazione diretta con i pazienti avviene in fase di erogazione del supporto: il colloquio, la raccolta delle difficoltà e dei punti di forza rispetto al percorso alimentare permette di fare sì che le indicazioni alimentari vengano costantemente riviste e migliorate sulla base dell’esperienza del destinatario finale.

La relazione terapeutica ai tempi del Coronavirus: la storia di Alfonsina

Dal 9 marzo le nostre vite sono state stravolte, le nostre certezze minacciate. Un grosso tumulto emotivo ci ha travolti, quasi come se stessimo osservando la nostra vita da una finestra, come se non ci appartenesse… non può essere! Non è possibile!  Il Covid 19 ha stravolto i nostri ritmi biologici e psicologici, le nostre relazioni, si è impadronito della nostra libertà.

Dopotutto, fino all’inizio della pandemia, la città di Wuhan non era altro che una parte di mondo sconosciuta, lontana da noi sia fisicamente che emotivamente.  Si è fatto spazio dentro di noi la consapevolezza che tutto è cambiato in modo dirompente, e dopo un primo momento di incredulità e distacco dalla realtà, la rabbia la paura e lo sgomento hanno scandito il ritmo giornaliero del nostro mondo interiore. Sono cadute le certezze, dando spazio all’amara consapevolezza dell’assenza dell’altro, dei rapporti sociali, di una quotidianità data per scontata ed ora tanto desiderata.

Il nostro lavoro come psicoterapeuti è stato “aggredito” nel suo aspetto fondamentale, il generatore di cambiamento attraverso la certezza dell’esserci… la relazione.

La relazione è fatta dell’incontro nel setting, di dialoghi, d’incroci di sguardi, di vissuti espressi con il linguaggio del corpo, attraverso quei sospiri impercettibili che solo la condivisione dello spazio “terapeuta paziente” mette in comunione e fa cominicare fra loro.

Anche noi psicoterapeuti siamo stati chiamati ad un cambiamento, cambiamento necessario a trasmettere ai nostri pazienti il nostro esserci nelle loro vite. In questa emergenza abbiamo fatto ricorso alla strutturazione di un setting “diverso”, nato nei byte, fatto di clic e di videochiamate. Ci siamo adattati creativamente al nuovo. Nonostante le difficoltà, le sofferrenze, abbiamo colto e rimandato ai nostri pazienti due cose importanti: vivere con la consapevolezza che il Covid 19 è fra di noi, ma nello stesso tempo mantenere viva e pulsante la speranza che genera energia e voglia di far fronte al dolore e alle sofferenze. Il nostro ruolo in questo tempo è stato di accoglienza, condivisione e presenza.

Una paziente, infermiera, ha trovato nei nostri incontri l’unico spazio dove poter dare voce alle sue angosce, alla sue paure. L’ambiente di lavoro si è trasformato in un bacino di emozioni forti, intense e devastati: paragonava l’entrare in reparto come il varcare la trincea in guerra, con un compagno di viaggio costantemente presente, lo spettro della paura della morte. Il solo pensare di poter essere contagiata dal virus la devasta, ed ancor di più la terrorizza l’idea della possibilità che essa stessa possa veicolare il virus della morte ai suoi cari, non riuscirebbe a sopravvivere al senso di colpa.

Il suo ruolo gli impone di dare coraggio, stabilità, mantenere alto il livello di guardia, ma nello stesso tempo trasmettere la speranza che “andrà tutto bene”.

Il supporto emotivo ai tempi del Coronavirus: la storia di Francesca

Covid-19. Emergenza sanitaria. Lockdown.
Sono parole che risuonano nelle nostre case ormai da alcuni mesi e con loro ne sono arrivate altre: paura, dolore, incertezza. Della malattia, della perdita, del futuro.

Ognuno ha il proprio modo di vivere ed esprimere questo momento attraverso emozioni complesse e spesso difficili da gestire e, nel confronto con i miei pazienti e i miei colleghi, ho capito che la parola d’ordine come psicoterapeuti non poteva che essere una: flessibilità.

Flessibilità nel gestire il processo clinico e nell’apertura a nuove forme e mezzi di comunicazione.

Come con Giorgia*, madre single di un giovane con una patologia cronica, che si è rivolta al supporto psicologico per la prima volta perché sopraffatta dall’ansia di essere sola e di dover proteggere il figlio da questo nuovo virus.

Con Giorgia abbiamo iniziato un breve sostegno tramite videochiamata grazie alle quali abbiamo potuto fare anche alcuni esercizi per imparare a gestire i momenti più difficili.

La videochiamata non è un mezzo del tutto nuovo nel supporto psicologico e, in casi come questo, dove il manifestarsi violento e improvviso del disagio è reso più acuto dal confinamento all’interno delle mura domestiche, risulta particolarmente efficace come porta verso l’esterno e come realizzazione della presenza di una rete di supporto su cui contare.

Antonio*, invece, caregiver di professione, teme di portare il virus a casa dai suoi cari e ai suoi pazienti. L’idea di questo rischio in poco tempo è passata da semplice timore passeggero a una vera e propria paura che gli rende complesso svolgere il suo lavoro con la necessaria calma e serenità.

Per lui e per tutti i suoi colleghi, impegnati in prima linea, è stato aperto immediatamente uno sportello di ascolto, per garantire un luogo sicuro e protetto in cui poter condividere queste emozioni.

In questo momento il primo obiettivo che ci poniamo come psicoterapeuti è soprattutto quello di permettere alle persone che necessitano di supporto di prendere coscienza della natura dell’emergenza e di riconoscere che si tratta di una straordinaria esperienza collettiva in cui siamo tutti coinvolti senza eccezioni.

È fondamentale quindi comprendere che non siamo soli nella paura, nel dolore e nell’incertezza e che esiste una rete di supporto capace di aiutare a comprendere e abbracciare le nuove emozioni e andare oltre grazie alle proprie risorse personali.
Per fare questo, in un momento in cui le relazioni e la comunicazione tra le persone sono profondamente intaccate dalle misure di contenimento, la flessibilità nell’approccio è la chiave per offrire il miglior supporto possibile.

* (nomi di fantasia)